Léa dedicata a Chéri, di Colette

sabato 3 marzo 2012

Sofia e l'elastico, di I. Borghese



Sofia e l’elastico

a Zazie.


A Sofia capita spesso di compiere un gesto semplice e abitudinario: chiudersi la porta alle spalle con violenza, slam!, e afferrare così, ogni volta che può, la sensazione di libertà, impagabile e ricercata.
Non sempre sa dove andare, tuttavia vagabondare, per una ragazzina come lei, resta il miglior modo per osservare e conoscere. Sofia infatti non fa alcuna distinzione tra bighellonare e passeggiare. Nell’uno e nell’altro procede con la stessa sfrontatezza.
Quando Sofia mette piede al parco Nemorense è sola.
La disinvoltura dell’autunno si è presentata puntuale con il 21 settembre di pochi giorni fa, ma ha spezzato l’aria che dichiara, ancora e senza fine, voglia di maschere estive.
È per questo che Sofia per casa gira ancora a piedi scalzi e anche oggi, per raggiungere il parco, si veste d’estate e colori vivaci. Non rinuncia al suo vestitino rosso a pois bianchi, né ai calzini corti verdi e alle ballerine colorate, blu.
Blu. Come il colore del cerchietto.
Blu. Come la borsetta.
Blu. Come la copertina del suo quaderno.
Il cerchietto viene dalla merceria delle sorelle antipatiche, dice Sofia; quelle che non ridono mai e si arrabbiano se lei si diverte a sfilare i tubi dal contenitore di fili colorati e li sposta da una parte all’altra. La borsetta era della mamma.
Della mamma di Sofia quando era giovane e girovagava con le sorelle più piccole in strade su cui Sofia non ha potuto passeggiare. Il quaderno sono le pagine bianche dove, ogni giorno, lei intrappola parole, poche. Quelle sufficienti per incorniciare i suoi incontri o una manciata capaci di ricordarle vecchi ricordi o l’importanza di una giornata da consegnare al suo letto.
L’abito ha altri colori invece. Ed è figlio di una sua conquista. Dopo anni che ha indossato gonnelline e vestitini di bambine più grandi di lei, la voce della sua piccola rivoluzione un giorno si è fatta sentire con prepotenza: “Mamma, basta! Voglio un vestito tutto mio”.
È così che quello rosso a pois bianchi ci ha impiegato davvero poco a diventare il suo preferito. Il tempo breve di indossarlo e guardarsi allo specchio del negozio e portarlo a casa.
Dalla sua borsetta Sofia non si separa mai. Si può dire che fa parte di lei come il bottone della camicia o come la tasca del pantalone. O come in cucina stanno insieme il cacio con il pepe.
Oggi Sofia grazie a questo tempo in maschera non ha ancora da temere il freddo come invece ha paura del vuoto e dell’essere abbandonata. Questo, insieme alla sua borsetta, la fa sorridere con una serenità che sembra coccolarla.
Il freddo ci spaventa a stagioni, pensa Sofia.
Il vuoto e l’essere abbandonata possono metterci in apprensione per una vita intera, riflette. Non conoscono stagioni e, ancora di meno, la primavera e il caldo.
Sofia entra nel parco e non percorre mai la strada di ghiaia che la porterebbe alla parte alta di alberi, sassolini e spazio per far divertire i bambini.
Quando passa di lì preferisce infilarsi nel circolo di bocce, restare qualche minuto a osservare gli anziani che si divertono a dividersi in squadra secondo le amicizie storiche o improvvisate. A gettare lontano prima il boccino, poi a tentare di lanciare le bocce il più vicino possibile.
Quando Sofia si accorge che il gioco è nel pieno del divertimento dei signori si allontana contenta. Paga di andar via con l’immagine del loro passatempo e saltellante perché presto tornerà a cercarli. Le piace sapere che li scorgerà di nuovo dentro la cornice disegnata da loro stessi.
Male che vada conosce la possibile variazione: si imbatterà nel borbottio di chi sta perdendo sventolando all’aria mani insoddisfatte e arrabbiate e gettando all’aria parole altrettanto avvilite. Qualche volta anche insulse e sprezzanti verso i vincitori, ma non vuole arrendersi lo stesso. Preferisce parlottare. Appunto.
Dopo aver intrappolato questo quadretto Sofia entra nella parte alta del parco.
Lo stridere è forte, un minestrone di voci di diverso sapore: parlano i bambini mentre piangono o ridono. Parlano gli uccelli da un ramo dell’albero all’altro o quando si rincorrono tra la ghiaia e il cielo. Parlano le giostre che girano, girano, girano, mentre fanno credere ai piccoli di essere al galoppo, o di guidare l’elicottero sopra la città; o di essere un automobilista o un militare dentro la geep. Le giostre sono magiche senza impegnarsi troppo: girano, cantano e rendono i bambini felici. Parla la pista da pattinaggio con lo scivolare dei pattini che inciampano sulla ghiaia, o il rumore dei pedali delle biciclette unti di troppo poco grasso per restare in silenzio. Parlano le panchine per non far riposare le chiacchiere in comodità. Ma parla anche il chiosco, soprattutto d’estate, col rumore del ghiaccio che sbatte e quello del vetro trasparente del frigo quando si chiude e dove si prende la coppetta del nonno. Parla il laghetto con l’acqua sporca e i rospi, dove i bambini giocano a nascondersi, qualcuno ci cade sempre dentro, e gridano “Tana per Giulio!” e gli altri schiamazzano divertiti. Parla la fontanella dove arrampicarsi con l’acqua che scende e se non trova la mèta nella bocca di un bimbo arrampicato o nei vestiti che si inzuppano, continua il suo corso e in questo modo anche a parlare di sé.
C’è un momento in cui tutto questo parlare sembra d’improvviso finire nella coincidenza di pochi attimi di silenzio. Come se si fossero tutti intesi e avessero deciso di consegnare spazio a una sola voce. E questo attimo combacia con l’arrivo di Sofia nella parte alta del parco.
Si ferma un attimo. Prova a raccogliere con uno sguardo quanto più possibile riesce a catturare. Sorride. È contenta di essere lì. Sorride di nuovo come in genere si è dopo aver varcato la soglia della porta di casa.
Si guarda attorno ammaliata, stupita e incuriosita di quell’improvviso silenzio. Si ferma con curiosità perché un silenzio così inaspettato, pensa Sofia, non può che preannunciare un evento altrettanto fantastico.
Allora resta impalata. Con i pugni delle mani fermi intorno alla vita. Le pupille che si muovono a destra e a sinistra, poi in avanti, attente, che se potessero uscirebbero anche dall’orbita, e sono in movimento con lentezza misurata e voglia di sposare questo silenzio.
A vedere Sofia sembra certo che sia pronta ad accogliere qualsiasi accadimento imprevisto.
“Vai via cretino! Levati da qui! Questi sono giochi da femmina”.
Ecco qui l’inaspettato.
Sofia si gira, aggrotta le ciglia, poi si lascia andare e ridacchia con gusto.
Non riesce a capire a chi appartenga quel gridare imperativo, né sa immaginare un volto adatto a quei toni. Di una femmina poi. Una ragazzina come lei in modo probabile e le femmine come lei non strepitano in quel modo.
Eppure Sofia, mossa dall’interesse e dalle risa in cui è inciampata, sceglie di scoprire a chi appartiene questa voce… “Simpatica!” pensa fra sé Sofia “Questa ragazzina dev’essere bizzarra e curiosa!”.
Poi Sofia fa due, tre giravolte su se stessa mentre trattiene ancora gli occhi sbarrati a osservare intorno. Con questo fare lei è certa di imbattersi nella bambina che grida. Del resto, da qualche parte dovrà pur essere! Eppure nulla.
“Tout n’est pas du!” esclama Sofia.
Riprova con una lenta piroetta su se stessa, come se farla preannunciasse una magia, poi si ferma d’improvviso con il viso rivolto alla piazzola vicino alla quercia, eppure nel gruppo di ragazzini che giocano lì davanti, non vede nessuna bambina. “Cacchio!” pensa Sofia “Nes-su-na! Ma dov’è?”.
E, “Questi maschi sono proprio imbecilli!”, continua a gridare.
Da lontano Sofia si accorge di altro: c’è una bambina accovacciata vicino a due panchine. Sembra che faccia la pipì, potrebbe essere la tipa che cerca. Sofia allora corre, corre verso la bambina ma “Ti allontani?” la precede una vocina dimessa e quasi intimidita.
“Uff!” borbotta Sofia, “mi allontano, sì. Non sei la voce che cercavo”.
Nell’immediato fa un’espressione imbronciata, triste. Non le resta appiccicata al viso per molto però.
C’è una scena infatti che attira l’attenzione di Sofia, subito dopo. Una scena insolita. Proprio vicino al laghetto, accanto al bar, sul cemento dove d’estate la signora col grembiule con le margherite e la voce rauca sistema i tavolini, qualcuno deve aver sistemato due panchine.
Ne ha posizionate due sostituendo due figure umane e allungando una fettuccia di elastico bianco unita agli estremi e incastrata così dai piedi di una a quelli dell’altra.
L’elastico. Quel gioco così spassoso in cui saltellando e gridando si deve tener sempre sotto i piedi l’elastico senza farlo sfuggire dalle suole.
Pena: la perdita nel gioco. In genere alle estremità ci sono due bambine a tenerlo con le gambe divaricate.
Sofia si avvicina. Resta dieci minuti a giocarci, da sola.
Pensa che il gioco dev’esser sistemato così dalla bambina della voce che grida e quindi si dice che presto, molto presto, riuscirà a incontrarla e a conoscerla.
Poi qualcosa la distrae, un rumore. Tutto la distrae dai suoi pensieri. Ascolta lo sbattere di un sasso sul cemento e poi ancora di nuovo quella voce: “Questi ragazzini! Che diavolo vogliono! Sono giochi da femmina”.
Sofia scatta all’improvviso certa che adesso, finalmente!, potrà incontrare questa tipetta.
“Mieux vaut tard que jamais!” esclama ad alta voce.
E gira l’angolo.
Davanti a lei c’è una bambina con i capelli a caschetto neri. Indossa una maglietta arancione. I pantaloni al ginocchio e i calzini marroni anch’essi. Sta lì. Saltella con una gamba sola, quando il gioco della campana non le richiede entrambe.
Saltella e continua a borbottare. Sembra che ci sia sempre qualcosa per cui lamentarsi.
“Ehi, ciao!” le chiede Sofia
Nessuna risposta. Uno.
“Ciao, sono Sofia! E tu?”
Nessuna risposta. Due.
“Ti ho sentito gridare con i bambini, da laggiù. Vuoi giocare con me?”.
Nessuna risposta. Tre.
“…ehi, parlo con te! Mi vedi? Mi senti? Mi rispondi? Accidenti! Sono qui”
Nessuna risposta. Quattro.
“Questo dev’essere Bois de Boulogne. Bello questo parco. Voglio una coca accidenti! Una Co-ca! Dove la trovo?”
Risposta? No. La bambina forse parla da sola.
Parla la bambina. E come se Sofia non ci fosse. Come se non avesse nulla da dirle.
Sofia sospira.
Pensa a qualcosa da fare.
Ha voglia di comunicare, di farsi ascoltare. Questa ragazzina, continua a starle simpatica, ma perché non la vede? Perché?
“Ci vuole un dispetto” pensa Sofia.
E così, “Adesso vediamo se continuerai a far finta di non vedermi!” le grida contro avvicinandosi porgendo in avanti il busto con le mani intorno alla vita, mentre l’altra mostra l’espressione pensierosa e lancia il sasso temendo di non riuscire a farlo atterrare nel quadrato numero 4 disegnato in terra.
“Oh, no! Cacchio! Basta! Vado a cercare una coca! Basta!”.
Sofia sbuffa, ancora una volta, nessuna risposta.
Da lontano poi arriva un iroso “Sparisci! Sparisci! Sparisci! Io gioco da sola!”, sempre la voce della bambina.
“Imbecille!” pensa Sofia mentre è vicino alle panchine. Con fatica alza i loro piedi, uno ad uno e così riesce a sfilare anche l’elastico. Lo attorciglia intorno alla mano e lanciando un’occhiata vispa verso la ragazzina esclama: “Adesso me lo porto via”.
E così è. Sofia lo chiude in un pugno e poi lo nasconde nella borsetta, certa che presto tornando al parco andrà vicino al chiosco, cercherà di nuovo la bimba e avrà la scusa dell’elastico per rivederla e parlarle.
Sono le 18, 30.
Tra mezz’ora deve rincasare. Si siede sulla staccionata davanti al laghetto e non appena lo sguardo atterra sull’acqua lercia ride perché si ricorda del giorno che vi è caduta dentro, anni prima. In un pomeriggio invernale ha messo i piedi su un bastone nell’acqua, nella convinzione che potesse mantenerla e, splash!, ci è caduta dentro. Ha sentito subito alle spalle i bambini ridere, qualcuno a crepapelle, e anche a lei stava per scappare una gran risata.
Poi ha scelto di piangere, per il freddo. Molto freddo. E la mamma le ha gridato contro: “Ti avevo detto di stare attenta! Adesso ci prendi anche il resto!”. Anche per questo faceva freddo.
Questo ricordo la diverte e la angustia nello stesso tempo ma non dura che pochi attimi. Appena ritorna sulle sue sfila il quaderno dalla borsetta blu. Scende dalla staccionata, si mette accovacciata con la pagina bianca aperta. Impugna con la mancina la biro, si accorge che ha un chiodo fisso in testa: questa voce che non le risponde. Che sembra non vederla. E lei che invece le parla.
Prende il suo appunto di quel pomeriggio, con un po’ di tristezza e incomprensione: i bambini vanno ascoltati quando parlano, ma ancor di più quando restano in silenzio e quando gridano da soli come se intorno a loro non ci fosse nessuno.
Poi ripone il suo quaderno al suo posto, tira un respiro di sollievo, salta la staccionata per riattraversare il parco e avviarsi verso casa.
Sceglie di passare vicino ai signori che fino a poco prima giocavano a bocce. Ne è rimasto uno solo ed è lì a sistemare ogni cosa al suo posto, senza dire nulla, solo con pochi rimasugli di stanchezza.
Sofia sventola la mancina per salutarlo, lui ha le mani occupate, risponde con un sorriso e “Passi a salutarci domani? Ti aspettiamo!”.
“Va bene, allora a domani!”.
E così Sofia comincia a saltellare diretta verso casa e contenta di riaffacciarsi domani nel suo parco. Prima di sparire dietro la curva che la porta a casa si volta a dare un ultimo sguardo al cancello verde della villa, Chissà! Esclama Sofia tra sé, se domani incontrerò quella bambina.

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