Léa dedicata a Chéri, di Colette

lunedì 24 maggio 2010

ALFA PRIVATIVO - MCMXCII - Agosto, di Gaja Cenciarelli



Questa volta non è un inedito, ma un racconto già uscito su Accattone anni fa e nel blog di Laura&Lory.



ALFA PRIVATIVO
MCMXCII – Agosto
di Gaja Cenciarelli

Bianco come la balena intelligente, che aggiunse una sfumatura inquietante alla purezza di quel colore. Emerso dalle nebbie della non-essenza in un terrazzo profumato di gerani, piante di limoni e rose rosse. Faceva caldo, quel giorno. Le signore, stendendo i panni in cortile, si raccontavano le ultime novità. Così la donna del secondo piano venne a sapere della sua nascita e lo adottò. Erano anni che sua figlia desiderava un gatto. Il cucciolo aveva una macchia grigia sulla testa, che sarebbe scomparsa con l’età (Ti chiamiamo Gorbaciov, allora? O Herman, come Melville? No, Herman aveva un suono troppo duro per una creatura così armoniosa, decise la ragazza). Nel giro di quattro mesi arrivò a dieci chili di bianco: splendido gaudium pleni. (Perché quando lo chiamo non si gira? Non vorrei fosse albino... in questo caso potrebbe essere anche sordo, la donna). Romano fin nelle viscere e strafottente, come solo i veri romani sanno essere: senza offendere, ma senza traccia di understatement. «Tenete, pascetevi della mia immensità: nulla può scalfirmi, di nulla ho paura».
(Non è sordo, ma non gliene frega niente lo stesso che lo chiami, se non vuole rispondere, il marito della donna che lo aveva accolto in casa).
(Ma non miagola mai..., ribadisce lei)
(E perché dovrebbe? Io gli leggo nel pensiero, non ha bisogno di chiedere, lui)
Tra l’uomo e il gatto s’instaura un rapporto privilegiato e di costante adorazione: il loro è un amore infinito, senza spazi vuoti, senza lacune. Gli altri membri della famiglia sono un po’ invidiosi. L’uomo gli lascia la luce accesa, di notte, perché sa che il figliolo – il suo maschietto -, al buio, non riesce a dormire.
MMIV – Febbraio
La ragazza si accascia in corridoio, stringendosi le ginocchia al petto. La sirena ancora ulula in lontananza e lei si ripete che non è una delle solite sirene cui ormai non fa più caso. Non è una delle solite ambulanze che porta sconosciuti al San Giacomo (quante volte ha immaginato i loro corpi, le loro menti, i loro pensieri. Quante volte ha pensato che qualcuno di loro stesse per morire. Quante volte si è chiesta: e dopo?) perché quella sirena urla per suo padre e perché il malato che porta al San Giacomo èsuo padre. Il gatto è di fronte a lei. Sembra imbambolato, un pupazzo di neve con un puntino rosso carota al posto del naso. La fissa con occhi sbarrati che quel giorno sembrano più grandi del solito. La ragazza si rialza. Il gatto la segue per una decina di minuti, mentre lei vagola senza mèta da una stanza all’altra della casa, risponde al telefono, parla senza sentire la propria voce. È la prima volta nella sua vita che le parole che pronuncia non le appartengono. La ragazza è un no. Un senza.
Che succederà dopo. Se papà non.
Il gatto salta sul letto, al posto di suo padre, si acciambella – per quanto glielo consenta la mole – e si addormenta. Cioè, chiude gli occhi.
MMIV - Aprile
Quel ventotto aprile duemilaquattro - il primo giorno in cui, dopo sedute e sedute di riabilitazione suo padre è uscito a fare una passeggiata, sia pure di soli dieci minuti – il padrone del forno sbraita, la ristrutturazione di Sant’Agostino è finita, Codognotto ha scolpito le indicazioni per arrivare a piazza Navona (stanco di dare spiegazioni ai turisti) e le ha appese sulle mura vecchie e fresche di Sant’Apollinare.
Ma la ragazza non è a casa.
Accarezza il gatto sul tavolo del veterinario. Lui la guarda, ansima, ha un po’ di bava tra le fauci.
«Stai buono, amore mio, io sono qui».
Poi esce. Aspetta.
Vede passare due uomini con il camice verde che trasportano un lungo e pesantissimo sacco dell’immondizia. Abbassa le palpebre per farsi scudo. Per non capire.
Sa che l’immenso candore del corpo felino che agonizza a pochi centimetri da sé ha cominciato a opacizzarsi dal momento in cui suo padre era stato ricoverato.
Il veterinario la chiama: «Non ce l’ha fatta. Se vuole vederlo... Ma non glielo consiglio».
La ragazza non può vederlo perché non ha più occhi. È un’assenza.
«Sa dove seppellirlo? Altrimenti ci pensiamo noi».
Quel lungo e pesantissimo sacco dell’immondizia.
«No, non so dove seppellirlo. Pensateci voi».
Da via Gregorio VII a casa sua il trasportino vuoto è un maglio che le trafigge il palmo della mano, il dolore aguzzo le si irradia nello stomaco e nel cervello. Sanguina la testa, che si sforza di formulare per il suo vecchio padre una frase meno feroce della verità.
Non c’è più. Se n’è andato. Ci ha lasciato.
«Papà, è morto» gli dice, quando torna a casa.
Morto. Che vuol dire finito. Che vuol dire il dopo, che vuol dire il nulla.
La ragazza accarezza con gli occhi il posto preferito da Moby Dick, l’angoletto sull’armadio da cui dominava la stanza, e per l’ultima volta gli canta la nenia di tutti i soprannomi inventati per lui in dodici anni di vita. Dal ventinove aprile in poi, non guarderà più lì perché, pensa - in un folle ed esasperante flusso di coscienza - : se non guardo, non vedrò che non c’è, quindi potrebbe anche esserci mentre non guardo.

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