Léa dedicata a Chéri, di Colette

venerdì 27 agosto 2010

Racconto: La Locanda degli Abiti Bevitori - Esercizio di scrittura 1.



La Locanda degli Abiti Bevitori

“Sotto gli abiti, per piacere, maneggiatemi con cura”. Il cartello è anonimo. Le lettere vivono sdraiate comodamente sul loro materasso di carta attaccato su un’anta dell’armadio . Hanno qualcosa che le allontana dall’orrido. Ognuna di esse rallegra la vista con un colore e una sfumatura differenti. Ricordano le collane di caramelle: colorate e zuccherose. Sembrano anche scelte appositamente per non voler trasmettere né orrore, né angoscia. Raccontano quello che devono incollate lì su quegli specchi che ricoprono tre grandi ante. La stanza sembra abitata da una sola donna: un solo letto, una scrivania, una sedia. Tutto il necessario è visibile in un pezzo unico. Negli specchi riflettono due mensole di cappelli stravaganti, modelli contemporanei sfiziosi che strizzano l’occhio ad altri d’epoca più eleganti. Una sedia di abiti sportivi concede la parete a una stampella che scende da un chiodo, proprio come fosse un quadro. Tuttavia quella parte di muro chiazzata di un abitino demodé è una macchia rossa a pois bianchi e un giacchetto nero ricamato. Lampade vecchie ad olio occupano il piano di un comò, ma proprio lì accanto la stanza ne ospita una da terra e un ultimo modello a sei luci. Un giradischi d’epoca accompagna ventiquattro pollici al plasma con dvd. Nello specchio intravedo un posacenere, un pacchetto di tabacco giallo e filtri in un sacchetto trasparente. Nuovi. Anche il tabacco è chiuso. Come se non fosse usato da tempo. Per questo, forse, sopra il posacenere c’è una piantina grassa. Collane di perle in fila ma immobili scendono e sembrano fare il paio con altre più eccentriche di caucciù e noccioline bucate. Delle tende se ne intravede una sola color arancio, forse figlia di un finto chiffon. Il sole è pallido e così la luce negli specchi che bussa ai vetri delle finestra, è tiepida. C’è un tappeto rosso che dona calore. E sopra, non buttati a caso ma con l’aspetto ordinato di pagine riposte una sopra l’altra, ci sono tre libri. Irriconoscibili nei titoli, autore ed edizione. Uno dev’essere nettamente più anziano, presenta infatti il colore delle pagine di una vecchia pubblicazione che forse viveva in una bancarella dell’usato… è il più vecchio e sta sopra gli altri che con il doveroso rispetto gli regalano il posto più in vista. E così gli altri due sembrano scomparire con quel bianco pagina appena uscito da una tipografia. Vicino c’è un quaderno aperto, con una copertina rigida e una penna: dev’essere il loro tête à tête. Libri e quaderno, tra loro, sul loro tappeto d’amore e stanno bene. Un paio di scarpe lilla, tacco sette, a cono, sulla mensola vicino al comodino. Un paio di stivali neri di velluto, aperti davanti, tacco dodici, sul letto vicino al comodino. I sabot con gli strass sono in terra ai piedi di quella piazza e mezzo. Uno sdraiato, l’altro col dieci centimetri puntato sul marmo giallo intarsiato di bianco. Mi sembra pallido come il sole di oggi. Questo paio solitario e disordinato dev’essere scappato di fretta dai piedi di una donna. Sembra buttato a caso. Il materasso si è abbigliato come una donna quando rientra a casa e vuole star comoda, senza fronzoli, né imbellettature, maschere di cipria e ombretti vari. Preferisce indossare solo se stessa e un vestitino anonimo. Anche il materasso lì acquista questa caratteristica: è vestito di un lenzuolo bianco e non ha neanche il cuscino, accessorio non sempre indispensabile. Mi piace perché si presenta un letto semplice e comodo. Essenziale. Ma non entra tutto nello specchio. Ne vedo solo una parte. Quella più esterna chiaramente. La stanza racchiusa nello specchio ha una bellezza che non sa manifestare nello spazio reale. Sembra più compatta e un’immagine da copertina di prestigiose riviste di arredamento che esaltano i contrasti. E sarà anche perché nello specchio in una posizione che corrisponde quasi al centro della stanza il messaggio vive sospeso: “Sotto gli abiti, per piacere, maneggiatemi con cura”. Sorrido a quei colori frizzanti e penso subito che sotto gli abiti che scendono in fila indiana nell’attesa trepidante di uscire allo scoperto nella loro bellezza e per farsi un giro tra le strade, ma senza chiedere numeretto né saltare la fila. Solo secondo il gusto di chi li indossa. Penso che non ci siano solo corpi sotto gli abiti, ma esistono anche gli scheletri. Ricado in un dubbio: non so se le parole del messaggio sono quelle di un corpo che sta chiedendo di non fargli del male, di maneggiarlo, sì, certamente, le parole sono chiare non lasciano fraintendimenti, maneggiarlo va bene, ma con cura. Tutto qui. O se credere a un messaggio in codice che non riesco ancora a decifrare. Io però non posso muovermi. Mi hanno piazzata vicino alla scrivania senza neanche pensare che forse avrei preferito essere in cucina, a mischiarmi tra i profumi, la mia passione o fuori da qualche altra parte, anche in un bar del parco, al fresco. Vorrei andarci, ma sono bloccata. E ho caldo. In questo posto della casa sono sola, questo non mi spiace, ma non posso fare nulla se non contemplare le mie forme. Devo essere abbigliata di quella bellezza che soddisfa più gli altri che me stessa. Non sono più padrona di me ormai, sono quella che sono e gli altri non possono che abusare di me, per forza, appena vorranno. Mi prenderanno e mi useranno a loro gusto. Mi consumeranno. Ci sono femmine che nascono per questo. Per essere usate e consumate finché durano. Ora non posso neanche arrivare a prendere uno di quei libri o leggere quel quaderno aperto sul tappeto rosso. Mi sento come quelle “cose” che fanno bene e servono più agli altri che a se stessi. Ma a vedermi nello specchio, in questo profilo che risalta solo il mio abito dorato e il mio lungo collo invitante e seducente, mi trovo slanciata nella media, vestita di un colore che ricorda il dorato e la luce affascinante della luna piena. Non riesco a vedere tutta la stanza da qui ma aspetto che decidano di spostarmi. Aspetto. Aspetto. Aspetto. Aspettare non mi dà fastidio, so darmi alla pazienza. Ma certo, dipende anche dalla fine che mi spetterà. Non so dove mi sposteranno. Non ancora. Aspetto. Aspetto. Aspetto. Il sole pallido è rincasato. La luce della sera, per mano di un pittore che esercita ancora la sua arte aldilà delle nuvole, abbandona la luce a striature alla Monet tra sfumature lavanda, venature vaniglia rimasugli di quel giallo pallido. E così anche nella stanza la luce è diversa. Cerca buio e riposo. D’improvviso una mano mi afferra per il collo, apre un’anta a specchio, resta un po’ a contemplare abiti e stampelle, con leggerezza ma attenzione. Questa mancina dev’essere abituata a questo fare, non trema né si agita. Ecco la mia fine: la mano mi accomoda dentro la tasca piuttosto capiente di un paltò arancio, bianco e verde… Io sono solo una bottiglia di Martini bianco. Sono “solo” una bottiglia, sono femmina, mi consumeranno, ma non sono affatto “sola”. Quest’armadio è La Locanda degli Abiti Bevitori. Non capisco se ad ogni abito corrisponde una bottiglia, per incomprensibili congetture della mente di questa mancina. Riconosco che di tanti posti dove sono stata questa Locanda è il più bizzarro. Sono abituata a vivere al freddo, a vedere uomini non vestiti, a osservare donne sbronze senza vergogna e altre più composte. E mi piace il limone che mi accompagna in una relazione etero che dura il tempo di sciuparmi in un’unica goccia sul fondo. O l’oliva che mi assapora e mi seduce in una relazione omosessuale che termina ogni volta col nocciolo che vien gettato con grazia sul palmo chiuso e che poi andrà a morire in un piattino; o con atteggiamento mascolino dalla bocca direttamente nel medesimo posto. Sono abituata a vivere tra le persone non tra i vestiti. E qui ce ne sono un’infinità. E di tutti i tipi. C’è persino un’eccentrica giacca nera di struzzo che si vanta nell’essere posta accanto a una semplice e classica di velluto marrone. Sotto questo velluto marrone c’è un Amaro del Capo. Sapori calabresi da non dimenticare. E accanto, incastrato tra tre borse che sono un secchiello bianco con intarsi di margherite, una di Tolfa e un vecchio bauletto per i trucchi proveniente da Borghetto Flaminio, ci sono tre Falanghine rigorosamente in piedi e coperte da una sciarpa elegante bianca, di ornamenti e pajettes della stessa tinta . Quando la donna lo apre toglie il ripiano per gli ombretti, fa spazio e sistema qualche Sanbitter, poi richiude tutto. Certo, qui è buio. Non si vede luce, né io vedo bicchieri per farmi consumare. Avrei bisogno di freddo e ghiaccio. Sembro piuttosto inopportuna. Ma vedo le altre bottiglie così a loro agio, come fossero sistemate rispettando gli abbinamenti coi colori degli abiti. E anche gli abiti… in quest’accoppiata restano sulle sue sì, ma non si arrabbiano di pieghe che non ci sono, né di lacrime che sarebbero gocce di alcool a sporcarle. Alla Locanda degli Abiti Bevitori tra bottiglie e vestiti c’è rispetto e diplomazia. Ognuno si fa i fatti suoi. Ah! La mafia della Locanda. Nessuno deve sapere che io e le altre siamo lì. Quando la donna ci vuole passa, apre l’anta, entra nella Locanda e ci viene a prendere. E ci fa consumare dai suoi ospiti. Ora è più buio però. I colori di Monet non sono che un vago ricordo, ma respiro la solitudine di un Hopper. La mancina ci ha chiuso dentro. Gli abiti non hanno nulla da dire. Solo un Corpetto si indispettisce, Andatevene via!, ci grida. Non è il posto per voi questo. Il Corpetto dev’essere abituato a incontrarci solo nei locali di notte. La vita dell’armadio sembra andargli stretta. Dev’essere per questo che se la prende con noi. Sembrerebbe il solito abito, noioso e spaventato di finire la sua esistenza in un armadio. Appeso alla stampella sì, proprio come si appendono le scarpe ai chiodi. L’Amaro del Capo, ubriaco di sé e della sua forza si fa avanti, non come me, che resto zitta, a guardare, a osservare la Locanda, Pensi che sia facile per noi stare qui dentro, Corpetto?, si pronuncia l’Amaro ubriaco di sé, è tanto difficile per te quanto per noi essere qui dentro. A nessuno piace stare nel posto che non gli appartiene. Ma tutti gli abiti hanno comprensione per noi, coltivala anche tu. Farebbe onore alla tua bellezza e alle tue pajettes accoglierci qui dentro. Ascolta me che sono assai più vecchio di te. Accoglici e fa’ attenzione, piuttosto, qui dentro, sotto di voi è bene che ci maneggino con cura. Alla Locanda degli Abiti Bevitori non esistono giornate ordinarie. La donna che comanda non ci porta mai in cucina. Se usciamo di lì e solo perché lei ha degli ospiti. Ci usa, ci consuma, riempie i calici. Con le amiche ridono, schiamazzano, si confessano segreti e intimità, leggerezza e sfortune. Loro diventano le donne che non si vergognano se son sbronze, piuttosto lasciano parlare occhi e risate con la compostezza che non le abbandona. La donna non può chiudere ancora La Locanda degli Abiti Bevitori. Ma non appena potrà abbandonerà baracche e burattini per la banale e magica semplicità dell’ordinario . Nel quaderno che riposa sul tappeto lei racconta che l’uomo preferisce vederlo rincasare ubriaco piuttosto che fomentare la sua dipendenza. Per questo è nata La Locanda degli Abiti Bevitori: c’è una differenza notevole tra la vita che ci spetta nell’immaginario comune e quella che attraversa uomini e case nel quotidiano. Lo specchio non mente: è tutto vero quello che riesce a intrappolare lì dentro. E l’armadio è il suo fidato compare: custodisce tutto quello che non si può vedere. La Locanda degli Abiti Bevitori è un’alternativa di vita, una strategia per evitare il peso della sopravvivenza e il rischio del dolore fisico e morale. La Locanda degli Abiti Bevitori nasconde odio per tentare di preservare amore. Non chiude per ferie, non conosce il giorno di riposo né la pausa del weekend. Segue il ritmo della dipendenza di quell’uomo. E la dipendenza, priva di clemenza, non conosce pause. Mai.

giovedì 19 agosto 2010

Racconto: La ballata dell'amore cieco (ispirato alla canzone di F. De Andrè)


La ballata dell’amore cieco
(ispirato a La ballata dell’amore cieco- F.De Andrè)
Isabella Borghese
Giugno 2006


Corinne è ancora dentro quel furgoncino bianco.
Graffiante, graffiata, sprezzante e sprezzata.
Eppure sceglie di vivere.
Come unica alternativa alla sua morte lascia che il suo istinto di sopravvivenza decida per la fine di un’altra vita.
E tra i rivoli di sangue che rendono rosso il lino bianco e le sue gambe Corinne, fulminea, a fatica e sfinita impugna quel bullock che si trova alla sua sinistra, mezzo coperto da uno straccio di daino vecchio, unto e strappato.
Lo impugna stremata, ma lo riesce a trattenere nonostante la poca forza che possiede.
Forse, ora, solo quella generata dalla rabbia e dal terrore.
Corinne stende il braccio per recuperare energia e subito dopo batte tre colpi secchi su quel cranio che ha di fronte fuori di sé, imbestialito e infuocato.
E quei tre colpi secchi bastano a massacrare la testa di Sandro e sono sufficienti a spargere altro sangue in quell’abitacolo che ormai puzza di violenza, feroce e disumana.
Questa volta non è il suo di sangue e a fatica ora Corinne toglie quel corpo dal suo, indossa una divisa di lavoro che Sandro teneva sempre nella parte anteriore del furgoncino, si pulisce la faccia coperta di sangue e si trascina fuori.
A stento e barcollante ma Corinne è finalmente fuori da quel furgone.

Senza tempo.

Corinne raggiunge la città dei Sassi.

Senza tempo.

Arrivava a Matera ubriaca di odio, disgusto, paura.
Riesce a dimenticare il suo amico Gary, ancora in Olanda e si convince di dover scordare per sempre anche la sua amata Praga e la sua seconda patria, Roma.
Nessuno deve sapere più di lei.
Nessuno deve avere a che fare con lei.
Nessuno deve sapere che lei si trova lì.
Pena, la morte.
Questi divengono così gli unici crucci mentali di Corinne.

E sola adesso vaga nella città.
Ogni giorno osserva la profondità di quel burrone, passeggia a piedi nudi per conoscere quelle pietre inermi su cui si muove.
E Corinne che non si lascia impressionare dalla loro freddezza rimane incantata dall’imponenza e dalla loro storia secolare.

Ha trovato subito alloggio in una piccola grotta.
Quello è il suo rifugio.
Unico e solo.
Un nascondiglio perfetto, Qui nessuno mi troverà, si convince.

Trascorre il tempo e le sue giornate scorrono nella solita routine.
Ogni mattina si spinge fuori dalla città dei Sassi e si ferma all’abituale Coloreria.
I soliti? Le chiede puntuale, rituale e coinciso il negoziante.
Si, grazie .
Così Corinne risponde ogni volta, parca di parole e con lo sguardo sempre rivolto altrove.
Si procura le tele e i colori per la giornata, poi acquista un rosso molto corposo alla bottega di fronte e solo dopo torna tra i suoi Sassi.


Quel giorno invece il negoziante le porge la mano destra pronunciando un, piacere! Alfred. Posso sapere il suo nome? E’ una pittrice? E’ qui per lavoro?
E in quell’istante lei – di tutta risposta- impetuosa e schiva raccoglie tutti i suoi acquisti per fuggire con un rapido, piacere, piacere Virginie.

Virginie…E così Corinne repentina decide di cambiare identità.
Stabilisce di non essere più Corinne.
Per nessuno.

E Alfred tra le pareti della sua coloreria rimane con lo sguardo fisso a osservare la bellezza di quella cliente.
Quell’esile corpo che ora si ferma nella bottega di fronte e che unico nella sua andatura mostra forme sinuose e ben proporzionate.
E’ bastato così poco ad Alfred per ritrovarsi innamorato di quegli occhi smarriti e sfuggenti.
A prima vista.
Lui, d’improvviso come un fulmine a ciel sereno, rimane estasiato e
disarmato di fronte a quello sguardo schivo, fugace e incomprensibile.
Un’espressione che sa suscitargli incomprensione, ma anche curiosità.
Quella donna, pensa Alfred, nasconde qualcosa o ha semplicemente un fascino indiscutibile.
Poi, proprio lui spinto da quest’interesse decide di abbassare la saracinesca del suo negozio.
Vi appende una targa con su scritto Torno subito e s’incammina a distanza per seguire Virginie e scoprire dove alloggia.

Lei procede con tutte le sue cose.
A passo lesto.
A testa bassa.
In silenzio.
Si affretta per raggiungere la sua grotta e dedicarsi ad un’altra tela.
E pensa di dover trovare un’altra coloreria.
Quell’Alfred meglio evitarlo - riflette Corinne tra sé e spietata - in caso contrario potrei ucciderlo.

E quell’Alfred invece procede pochi metri dietro di lei e solo con in tasca le chiavi del negozio.
A passo lento.
A testa alta.
Fischiettando.
Immagina e senza dubitare che Virginie non si possa voltare indietro. Così lui prosegue rilassato e indisturbato.
E svagato e stimolato pensa di volerle regalare dei fiori, forse dei gigli, forse.

Corinne dopo venti minuti di cammino si ferma di fronte a una grotta. Poggia per terra le sue due buste e cerca nella borsa un mazzo di chiavi.
E’ appena arrivata a casa.

Alfred ha felicemente raggiunto il suo obiettivo.
Corinne entra nella grotta.
Chiude l’uscio, si affaccia alla finestra e si guarda intorno. Sembrerebbe che Alfred sia andato via – mormora- devo trovare il modo di liberarmi di lui.

Poi prosegue, senza tempo.

Prosegue ancora.

Prende una tela e due colori.
Corinne dipinge sempre e solo con due colori.
Sceglie quelli che le sembrano in sintonia con la sua giornata.
Opta per il nero e il rosso, due primari. Due tinte forti.
Perchè quell’incontro le ha rovinato il decorso delle ventiquattro ore.

Rinuncia persino a pitturare sul viale.
E sceglie di aprire il cavalletto in quei trenta metri quadri e svita quei due tubicini ad olio da spremere sulla tavolozza.
Le manca il pennello di dieci millimetri, ma Corinne non si preoccupa di questo, userà quello poco più grande e quello leggermente più piccolo.
Del resto, pensa, oggi dipingo di rosso la luce che entrava nella coloreria e di nero la voce di Alfred quando si rivolgeva a me, ammette Corinne e va bene anche il pennello di un centimetro e mezzo si, si va bene senza dubbio.
Nel frattempo lei tra i suoi fluidi e vibranti pensieri è intenta a sistemare tutto il necessario.

E nei suoi discorsi mentali sembra come impazzita.
Ormai vive dentro di sé, per sé, attenta e accorta ad allontanare chiunque gli si avvicini.

Alfred nel pomeriggio si ferma per quel giglio dal suo amico Paolo, nonché il fioraio.
“Paolo, mi porteresti un giglio bianco alla grotta vicino la fontanella? Quella che si affaccia sul torrente, vicino alla bottega di Zio Michele”.
“Certo, ma per chi è? Ti serve un biglietto?”
Alfred è in silenzio come chi sta pensando a una scelta da fare, poi si fa dare una penna e butta giù due righe: ”Nessuna tinta vale il colore dei tuoi occhi Virginie. Ti invito per un tea domani pomeriggio, Alfred”.
Poi lo legge. Lo rilegge e lo ricontrolla un’ultima volta.
Non sembra del tutto convinto, ma alla fine lo ripone dentro la bustina e lo consegna a Paolo.
“Se vai adesso –lo incita Alfred - la trovi di certo.
“Ma chi? Alfred, chi? Chi è che dovrei trovare subito?”
“Virginie!”
“Virgie…Chi? Vuoi dirmi la francesina?”
E Paolo comincia a ridere di gusto.
“Che c’è che ti fa divertire tanto?”.
“C’è che quella donna è pazza, ma non la vedi?- prosegue Paolo- Non parla con nessuno da quando è arrivata, cammina sempre a testa bassa. Non è mai venuta una sera in piazzetta tra noi ragazzi. Non fa altro che dipingere e se qualcuno le rivolge la parola sembra quasi scappare…Ma che dico sembra, fugge proprio lei! Ti sembra normale? Lascia stare, quella è tanto bella quanto folle. Te lo dico io che sono amico tuo, ricordatelo”.
Così Paolo conclude il discorso, dà una pacca sulla spalla ad Alfred e riprende, ti ho convinto? Hai cambiato idea, vero?”
PORTA- SUBITO- QUEI FIORI - A VIRGINIE.
Queste sono invece le ultime parole di Alfred.
Poi lui torna ad aprire il negozio.
E Paolo fa la sua composizione mentre borbotta qualcosa del tipo fosse più matto lui di lei, mah…
Poi sale in bici e si dirige verso i Sassi.

Corinne è lì.
Assorta nel suo mondo come fosse totalmente ovattata e lontana da tutto e immersa nella sua tela si gusta un calice di Carmenero per farsi compagnia.
Poi se ne beve un altro, un altro, un altro ancora… Ce ne sono di bottiglie da svuotare nella sua grotta.
E lei è lì, persa tra quei gradi alcolici a dar inizio al suo delirio.
Strepita i suoi silenzi sobri.
Singhiozza le sue lacrime trattenute.
Graffia il suo corpo sinuoso.
Strappa quella tela.
Insulta quella testa massacrata come fosse ancora viva e adesso impreca persino contro quel povero Alfred che si è solo innamorato di lei.

E Alfred è un brava persona.
Un uomo onesto, un uomo probo , forse anche troppo.
Lavora nella Coloreria del padre da quando ha finito gli studi.
Non è un ragazzo ambizioso, ma vive bene così.
Nella tranquillità del suo lavoro.
In qualche sera libera ad aiutare l’amico Geppo nella gestione di una trattoria.
In qualche altra da trascorrere con quei pochi amici fidati che si porta dietro da quindici anni.
Loro sono gli amici di scuola.
E quelli dei primi baci, dei primi beveraggi, dei primi sballi da strada, delle prime storie serie e delle prime scopate.
Gli stessi che poi crescendo hanno preso strade diverse: chi si è sposato.
Chi ha già divorziato.
Chi ha un figlio senza avere più un compagno.
Chi si è trasferito all’estero.
Chi studia ancora.
Chi è felicemente innamorato.
Chi invece lavora come Alfredo.
E quello che a lui piace della sua vita è anche questo: ritrovare sempre i suoi amici nonostante ormai percorressero strade diverse.
Parallele, ma differenti.
E nella sua strada Alfred è stato lasciato dopo undici anni da Laura con uno sbrigativo ma deciso sei troppo buono, troppo onesto, sempre attento, sempre accondiscendente.
Non ti amo più, forse ora preferisco gli uomini stronzi.
Mi dispiace, davvero credimi. Cosa pensi? Che non mi dispiaccia dirti che non ti amo più? Che non ti desidero più? Che non ti penso quando non ti vedo?
E lui aveva ascoltato ogni parola ricevendola come una pugnalata al cuore, ogni singola parola per lui aveva un suono acre e persistente .
In quei momenti assorbiva, passivo, sofferente e muto.
O forse solo accondiscendente anche in quell’occasione.
E’ finita, pensava, mi sembra ovvio, si convinceva.
E poi s’era seduto.
Mentre Laura con nonchalanche aveva ripreso la sua borsa, tirava un respiro di sollievo e si congedava con uno striminzito Più di questo non so che dirti, meglio che vada. Ciao, perdonami.
Questo succedeva cinque anni prima e quella l’ultima volta che Alfred aveva visto e parlato con Laura.

Durante il tempo trascorso Alfred non ha perso stima per le donne eppure tralasciando qualche storiella da chiacchiera da bar, lui rimane l’uomo che se perde la testa la perde a lungo.
E purtroppo o per fortuna è anche l’uomo che si può innamorare solo per uno sguardo.
E questo Corinne lo ignora.
Lei non sa che Alfred ha un’unica colpa: si innamorò perdutamente di una che non l’amava niente.

Paolo arriva davanti a quella grotta e sente strane urla provenire da lì dentro.
Sceglie la fuga.
Bussa due colpi irruenti con la maniglia di acciaio.
Lascia quel giglio col biglietto attaccato in terra.
Monta sulla bici e scappa senza neanche ripensarci.
Gliel’ho detto io ad Alfred che questa è matta.

Corinne copre i graffi sul suo corpo poi tesa e con fare circospetto
si avvicinava alla porta.
Chi è?
Chi è?
CHI E’?
L’ultimo chi è pronunciato secco e sonoro.
Poi si sposta vicino la finestrella, si accorge che non c’è davvero nessuno e così decide di riaprire la porta.
Per Corinne quel giglio è una pessima sorpresa.
Pessima.
Lo raccoglie con veemenza, come una furia, legge il biglietto ad alta voce e lo stropiccia ridendo.
“Ah Virginie, Virginie, Alfred ti invita per un caffè – blatera ghignando - Sì certo che verrò, ma per un tea e fa che sia bruciante come alla fine brucerai tu. Lo dicevo che dovevi starmi alla larga”

Corinne in effetti è fuggita da quel furgone ritrovandosi crudele e irrazionale, lucida solo a tratti.
Troppe volte appare sadica, assetata di sangue maschile.
Forse è la sua vendetta, la sua paura.
E si graffia. Si graffia come fosse accaduto tutto per colpa sua.
E odia gli uomini come se fossero tutti come Sandro.
E dagli uomini vorrebbe essere solo lasciata in pace.
Nel suo dolore e nei suoi silenzi forse sta impazzendo davvero.

Paolo arriva di fronte al negozio di Alfred, fa suonare il campanello, gli fa un segnale del tipo missione compiuta e torna ai suoi fiori.

Alfred tra i suoi colori e i suoi pennelli ha già l’atteggiamento di chi aspetta una risposta da un momento all’altro.

Corinne invece diabolica continua a dipingere e a meditare un piano, senza pensare ad alcuna risposta.

Arriva sabato.

Alfred si sveglia trepidante.
Corinne si alza indispettita.
Trascorre la sua mattinata seduta sul muretto di fronte alla sua grotta per guardare quel torrente che scorre inesorabile sotto i suoi occhi e per dar da mangiare a quei cani.
Gli unici da cui si lascia avvicinare a Matera.

Alfred apre il negozio.
Lui è ancora in attesa.
Eppure sembra certo che qualcosa potrebbe succedere.
Me lo sento, dice tra sè, Virginie verrà per quel tea, non ho dubbi.


Come pronosticato da Alfred alle cinque di pomeriggio Juliette si presenta al negozio.
“Ciao Alfred, allora andiamo a questo rendez-vous?”
“Certo, Virginie. Solo un attimo, devo chiudere il negozio”
Poi riprende quel Torno subito del giorno precedente e non si preoccupa affatto di dover abbassare la saracinesca durante l’orario lavorativo.
Lui è accondiscendente fin troppo, anche in quest’occasione.
Forse Laura aveva parlato a ragione nel lasciarlo.

Corinne e Alfred si avviano verso la sala da tea.
Alfred le apre la porta, le fa largo con il braccio, poi si dirige verso un tavolino un po’ in disparte.
Prego, Virginie.
E le sposta la sedia per farla sedere.
“Cosa prendi Virginie?”
“Un tea ai frutti di bosco”
“Un tea ai frutti di bosco! Mai assaggiato, lo prenderò anche io, mi fido di te.
Corinne lo guarda quasi impassibile, indifferente.
Questa ragazza è timida, riflette Alfred, devo prendere in mano la situazione.
Con il savoir faire modello ragazzo imbranato che vuole mostrare una sicurezza che non gli appartiene Alfred parte in quarta con le sue disquisizioni…Eh si, l’amore…. Sei fidanzata? Perchè io….(e giù a raccontargli la storia di Laura)…E poi il lavoro (e giù con il lavoro )…Ma il bello è che il tempo libero…(e le racconta del suo tempo libero)…Perché mio padre m’ha insegnato…( è il turno degli insegnamenti paterni)…E da allora mia madre…(qui parte con un elogio della madre decisamente senza misure).
Alfred in effetti è il classico uomo che senza problemi sa dire mia madre prima di tutto e tutti, glielo devo.
E nell’ascoltare quelle divagazioni la testa di Corinne si è già persa. E’ altrove e sembra che si sia messa già in movimento.
Tua madre prima di tutto? Adesso vedremo. Queste le uniche parole pensate dalla diabolica Corinne durante quel tea ai frutti di bosco.
Poi senza guardare Alfred negli occhi Perché quei fiori?, gli chiede, Perché mi hai seguita? Ti ho visto, cosa credi?
“Sai, quando ti ho conosciuta, beh è inutile che te lo nasconda…Credo sia amore a prima vista…Da quattro anni non mi succedeva QUATTRO…E certi treni, beh, com’è che si dice…Certi treni non ripassano, no?” E aggiunge una risata pensando che lei lo stia per seguire.
Inutile dire che Corinne è sempre glaciale.
Certi treni deragliano caso mai, mio caro Alfred, pensa Corinne, Sei salito su quello sbagliato. E soprattutto ci sei salito da solo.
Poi d’improvviso lui esce, torna al negozio dell’amico e rientra in quel bar con un mazzo di rose rosse e una bianca in mezzo.
“Mi sono innamorato di te, ne sono certo…Tu sei per me come quella rosa bianca, unica tra tante rose rosse…Farei qualsiasi cosa per te, davvero…Puoi mettermi alla prova se non ci credi Virginie, puoi mettermi alla prova…”.
Corinne lo sta osservando con attenzione, pensa di aver trovato pane per i suoi denti.
Così si alza di scatto “Vedremo, vedremo se è davvero così. Se vuoi stasera ti aspetto di fronte casa mia, al muretto vicino la fontanella. Ho del Carmenero da offrirti”
“Grazie Virginie, ci sarò!”
Poi Corinne si alza, ci vediamo più tardi pronuncia e se ne va.

Si allontana da quel bar tramando per quel dopocena con un’irragionevolezza che nella sua testa prende piede sempre più.

Arriva la sera.

Alfred si presenta da lei puntuale, ben vestito e con l’idea che quella serata avrebbe portato solo cose belle.
“Ciao Virginie, posso entrare?”
“Ora arrivo Alfred, un attimo”.
Corinne gli risponde da dietro la porta senza neanche aprirla.
Pochi minuti dopo si presenta da lei.
Con quel Carmenero nella mano destra e due calici nella sinistra.
Poi accosta l’uscio e si siede sul solito muretto.
“Ma non entriamo Virginie?”
“Non si può”
Corinne è abile a mentire. Conosce l’arte della menzogna.
E versa quel rosso nei due calici.
“Alla nostra conoscenza, Virginie!”
“Al tuo: farò qualsiasi cosa per te!” ribatte lei.
Alfred rimane interdetto.
Il fare di Virginie gli appare piuttosto discutibile, ma ancora affascinante.
Il fascino vince ancora su tutto.
E lui si mostra quasi vanitoso di questo amore.
Questa donna ha bisogno di sicurezza – riflette- Farò il possibile e l’impossibile per te Virginie - la rassicura.
Lei ride, arcigna e inquietante.
Ride e aspetta solo il momento giusto per esprimersi.

E’ trascorsa un’ora e quella bottiglia di Carmenero è svuotata di fronte ai loro occhi.
Alfred annebbiato e brillo.
Quel beveraggio comincia a farsi sentire.
Corinne se ne accorge e pensa che sia davvero arrivato il momento di parlare.
Senza mezze misure, poi lui avrebbe detto la sua.
“Virginie, sono tuoi questi cani?
“No. Immagino che vivono qui da sempre. Li ho trovati qui al mio arrivo. Sono sempre affamati, mi prendo solo cura di loro. E tu, se dici di essere così innamorato di me potresti aiutarmi”
“Certo Virginie, in che modo? Dimmi e sarà fatto”
Portami domani il cuore di tua madre per i miei cani. Corinne si esprime con molta freddezza.
E Alfred sgrana gli occhi rossi e socchiusi per quel vino che avevano tracannato.
Ma non sembra troppo sconvolto per la richiesta.
“Il cuor di mia madre? Virginie! Vuoi il cuore di mia madre per i tuoi cani?”
“No, voglio il cuore di tua madre come prova della tua passione, del tuo amore per me”
“Oh! Virginie avrai tutto da me. Tutto.”
“Bene allora puoi andare”
Così Corinne decide di licenziarlo senza altre parole.
“Tornerò domani, Virginie. Tornerò domani con quel cuore”

Alfred se ne va per nulla scosso, ma con la vanità e l’ardore di chi sta per dimostrare qualcosa di veramente grande.
Corinne, dal canto suo, lo osserva mentre si allontana e ride.
Sadica e assetata di sangue come sa essere lei.
Poi entra in casa e si mette a dormire nell’attesa del giorno seguente.

Alfred raggiunge la casa.
E sdraiato sul suo letto, pensa al modo più indolore per prendere quel cuore.
Ma senza titubare, neanche per un attimo.
Lo deve prendere.

La mattina seguente si sveglia alle sei.
Con il rumore dei piatti che la madre Altavilla sta lavando.
Alfred si alza, raggiunge il bagno, cerca quelle gocce di Remeron30 tra gli scaffali di quel mobile di fronte alla doccia.
Lo trova e pensa che di lì a poco avrebbe strappato quel cuore.
Inaspettatamente glaciale e spietato pure lui.
Va in cucina, senza neanche salutare; la madre ha lasciato il suo bicchiere di latte caldo sul tavolo nell’attesa che si raffreddi un po’. Come fa ogni mattina.
Alfred ci mette dentro la boccetta di Remeron30, aspetta che la madre ingurgiti quel bicchiere e che di lì a poco caschi a terra moribonda e priva di sensi.
E aspetta un po’, il tempo che sia abbastanza stordita e priva di sensi.
Poi corre al negozio per mettere un cartello.
Chiuso per ferie c’è scritto e senza alcuna data che dia delucidazioni sulla riapertura.
Rientra in casa , guarda il corpo della madre in terra e come richiesto da Corinne, Alfred dalla madre andò e l’uccise, dal petto il cuore le strappò.
Ecco la mia prova d’amore per Virginie.
Questo il suo unico pensiero.
Come se non si rendesse conto della sua azione.
Come se Paolo nel pensare fosse più matto Alfred di quella francesina, ci avesse colto in pieno. Chissà…

Alfred conserva quel cuore in un domopak di plastica e aspetta il pomeriggio.

E alle sedici dal suo amore ritornò.
Ripone quel cuore in un sacchetto nero che non faccia trasparire il contenuto.
Poi ossessionato, impazzito e incosciente si dirige dalla sua Virginie.
Dopo questa prova d’amore, si convince, sarà mia.

Arriva da Corinne.
Ecco il cuore per i tuoi cani Virginie.

Alfred ignora la cosa più importante Non era il cuore, non era il cuore, non le bastava quell’orrore, voleva un’altra prova del suo cieco amore.

Così Corinne poggiando quel cuore sul muretto, guarda cinica e inumana quell’uomo e aggiunge solo poche parole:
Gli disse amor se mi vuoi bene, gli disse amor se mi vuoi bene tagliati dei polsi le quattro vene.

Alfred si allontana.
Senza dire una parola fugge e rientra in casa.
Cerca una lametta.
Se questo è l’unico modo per conquistare quella donna Alfred non si sarebbe fermato.
In men che non si dica segue le indicazioni della sua Virginie: le vene ai polsi lui si tagliò
e come il sangue ne sgorgò
correndo come un matto da lei tornò.

Sanguinante, morente, fuori di testa, succube di una vanità irrazionale e letale corre da quella donna.

Fuori soffiava dolce il vento
ma lei fu presa da sgomento
quando lo vide morir contento.
Morir contento e innamorato
quando a lei nulla era restato
non il suo amore non il suo bene
ma solo il sangue secco delle sue vene.

Alfred muore contento.
Corinne rimane in vita.
Lei da sola.

Senza tempo.

E vince così la vanità di uno spirito cieco, irrazionale e innamorato e la vanità di un animo cinico spudorato e sofferente.

Così finisce questa storia senza tempo.
Con le ultime note di una ballata.