Léa dedicata a Chéri, di Colette

mercoledì 16 giugno 2010

LA RESA DEI CONTI, di I. Borghese

a Luigi e a Riccioli d'Oro


Sofia ha amato un uomo per molto tempo e di quell’amore Sofia ne ha fatto un dono prezioso per sette anni.
Poi così come la vita all’improvviso sapeva mostrarsi cruenta, visionaria e delirante anche l’amore per Sofia acquisiva solo un peso insostenibile. E Già. Amare si trasformava in una rima stupida e diveniva d’improvviso un non sopportare e voler osteggiare ad ogni costo l’amore stesso.
Sofia negli anni e in quelle finissime sfumature dure di vita quotidiana affinava col tempo un’indiscussa capacità: cominciava senza rendersene conto a prendere troppa confidenza e familiarità con sentimenti sgarbati, sconvenienti, instabili. Scopriva che la vita di Beniamino negli anni e con lentezza l’aveva condotta in una strada che, paradossalmente, prendeva distanze determinanti dall’amore. Sofia che amava il silenzio, la stabilità, la cura, la delicatezza, a poco a poco si ritrovava a sopravvivere e convivere con la confusione, la noncuranza di sé, la sfrontatezza, l’instabilità delle cose e di ogni sfumatura e questione che la circondava. E così i racconti di Sofia che nero su bianco vomitano brutture, sentimenti duri, devianti, deliranti e a volte d’abbandono, non avevano che un pregio: mettere Sofia ogni volta di fronte a quello che il tempo, le circostanze e la vita avevano fatto di lei e che lei per anni aveva dimenticato o rimosso e vissuto con troppa voracità.
Capiva che aveva accolto e si era posta nella sua vita malamente e per lunghi anni un unico obiettivo e finalità: prendersi cura di Beniamino e incedere con iniziale inconsapevolezza verso l’allontanamento da se stessa. Ha la eco di un sacrificio tutto questo. Ma un sacrificio che a lungo andare si presentava nell’esistenza di Sofia come un’assoluta strategia di vita, un’autodifesa, o chissà, una semplice e inconscia arma di sopravvivenza, che dir si voglia.
E i sacrifici hanno il dono e il privilegio di essere un’offerta che si rende a qualcuno, a qualcosa. Sono una rarissima ma potentissima forma d’amore, di generosità, proprio come la scrittura; e come la scrittura sono necessari, vivono e richiedono costante pazienza, cura, tempo e dedizione.
Quando Sofia sceglieva di abbandonare l’amore era il tempo in cui aveva radunato tutte le sue magagne passate, ma percepiva indispensabile donarsi solo al sacrificio perché come per ogni questione anche per le sue faccende era giunto il momento della resa.
La resa di Sofia arrivava col fare di una cosa elaborata negli anni ma con l’impeto di un qualcosa di imprevisto e accecante.
Lei non aveva alcun dubbio che la vita fosse un dono prezioso tanto quanto sapeva che con questo mondo che è farsa e apparenza non voleva avere nulla a che fare. Il ricordo della gravidanza di Irma ne era stata una chiara dimostrazione: un’allettarsi di sei mesi assolutamente necessario per farla venire al mondo. Ma non ci sarà forse un motivo perché qualcuno sceglie di non nascere? Ci vuole una generosità e una grazia inestimabile per capire che il diritto alla morte talvolta richiede un rispetto assoluto e doveroso. Sofia, raccontavo, nasceva però; e poi cresceva immersa a occuparsi delle questioni di Beniamino, conoscendolo padre e scoprendolo uomo, ma un uomo-padre e malato da sempre, allora sempre assai diverso nei modi e nel dire e da un giorno all’altro senza preavviso, senza chiedere permesso. Allora Sofia scappava da lui, ma poi la responsabilità e l’amore fatto anche di odio e brutture la rigettavano in casa, sempre. E poi le cliniche, il suo rapporto ambiguo e promiscuo in certe situazioni, la storia del suo matrimonio con Irma, Il matrimonio degli altri, appunto. E il suo essere padre, Apprendista sempre ma sempre anche in bilico tra uno stato di indecorosità e dignità oltre misura. Immancabilmente risultava sempre così eccessivo, o da una parte o dall’altra. Era così il padre che scovava a letto di un’altra madre, lo sguardo di Sofia che dimenticava l’andare di certe giornate amare e che ahimè, poi, la memoria andava a ripescare a distanza di anni. Era chi l’aveva privata per anni dei parenti più vicini e Sofia ancora lì a cercare la normalità – che non esiste e che credeva però di meritare-. Allora si metteva lì a costruirsi la sua famiglia congeniale e meritevole. Sfornava nonni a iosa, zii, cugini, padri e madri a sua immagine e somiglianza, faceva la Pasqua con una famiglia Pasquetta con un’altra, e piangeva morti che non avevano il suo stesso sangue. Addobbava alberi che non erano il Natale tra le mura di quella casa di famiglia e lì dentro invece aspettava la mezzanotte. Col nascere del bambinello lei avrebbe percorso altre strade, avrebbe abbandonato una tavola bandita a festa di torroni, pan forti e spumante per affacciarsi più spontanea a discettare con la famiglia scelta da lei e gustare quella pinta che in quel giorno misero e ipocrita era il dono più gustoso che ammetteva. Le famiglie che Sofia si costruiva e portava con sé ogni volta erano sempre molto accoglienti e amorevoli. Ammirava estasiata Patrizia e Piero, il loro modo di essere genitori, la cura che mettevano nelle questioni familiari e anche quel fare generoso e accogliente che aveva fatto di Sofia la loro quarta figlia. Incontri come questi erano i soli a cui Sofia sapeva dedicare e mostrare attenzione e dedizione, a cui sapeva di dovere molto, assegnare un valore. Li catalogava allora tra le poche faccende preziose mentre Sofia continuava a vivere nel suo strambo modo di incedere.
E scoprire poi che catalogare cose e persone e vivere la vita come fosse un incastro di vari scompartimenti e per ognuno dei quali Sofia era in un modo assai differente, era la sua migliore attitudine. Del resto lei che conosceva il fare e il disfare di un Beniamino che ammetteva nelle questioni solo il nero e il bianco, maturava l’indispensabile e reale necessità di fare della vita un campionario di sfumature assai diverse e relative a persone, situazioni e momenti molto distinti tra loro.
Allora Sofia la ritrovavi lì beata e rigenerata a custodire il bene ricevuto da chi incontrava per caso, o per strada e nel reputarlo assolutamente prezioso e meritevole. Le sembrava sempre di non aver tempo, modo e intenzione di metterlo via. Era piuttosto la sua salvezza e l’unico modo con cui lei imparava e voleva vivere e per cui riusciva a dare un grande valore a questa esistenza che le apparteneva malamente e che l’aveva voluta al mondo per forza contro la sua stessa volontà.
Sofia era le storie raccontate a episodi tra queste pagine, storie narrate a pizzichi e bocconi e che nel corso degli anni avevano scelto di riaffiorare tra i ricordi che con evidenza dovevano trovare una loro collocazione e che le richiedevano continuamente tempo e pazienza per ricondurla ogni volta in uno spazio e in un tempo che fin troppe volte era caos e interrogativi. Si presentavano come confuse a volte e stralci di ricordi e flashback riprovevoli.
Erano poi l’innegabile conferma che le questioni prima o poi riaffiorano sempre e malamente: all’epoca si vomitavano addosso a Sofia tutte insieme, in una delirante danza d’abbandono e quando era il tempo in cui forse Sofia non aveva più posto di assorbire e contenere. Quello della resa, appunto.
E il tempo della resa può essere un momento assolutamente decisivo, totalizzante. Il momento che mettersi lì a fare i conti può essere inteso solo e necessariamente come lo scrollarsi di dosso ogni cosa, perché nel calderone di brutture e malessere di una vita assai tormentata anche l’amore riusciva a perdere la sua purezza e il suo essere a mischiarsi invece col tutto. Va da sé che Sofia lasciava quell’uomo consapevole che lasciare per lei era a prescindere un verbo che la avvizziva. Già. Ma era una scelta e Sofia doveva necessariamente scegliere. Quando lei metteva nero su bianco le sue storie in quelle pagine che diventavano una pubblicazione ormai nascosta. Sofia rifletteva sul suo lungo percorso, inconsapevole che avrebbe trascorso anni ancora più sofferti. Gli anni che dovevano essere i migliori della sua vita divenivano quelli in cui lei tra lesionismo, sensi di colpa e malessere paventava una paura indescrivibile che il male di Beniamino un giorno si sarebbe riversato anche nella sua vita. Temeva con ferocia che la diagnosi di Beniamino prima o poi avrebbe fatto capolino nella sua quotidianità invadendo e senza possibilità di appello il resto della sua vita.
Così Sofia sceglieva di correre al riparo e di preservare qualunque affetto profondo possedeva e avrebbe avuto dalla sofferenza che invade inevitabilmente chiunque abbia a che fare con persone che vivono con certe patologie. Ecco il momento della resa dei conti: e Sofia nel timore di far soffrire poi quell’uomo decideva di sbarazzarsene. Lo faceva dettata da quest’istinto di protezione, ma sceglieva di farlo anche in quattro e quattro otto senza voler nemmeno andare a fondo e sincerarsi con l’amato. Lasciava piuttosto che sgorgasse la sua voce fluida e con motivazioni sciocche e banali; quelle che dimenticarle è stata un’inezia.
Pensare ed elaborare che a un certo punto l’amore non può appartenere alla propria vita è una questione che Sofia viveva in due direzioni opposte. Si sentiva nobile e generosa verso chicchessia, ma anonima e avara verso se stessa. I buoni sentimenti del resto hanno sempre prevalso nel suo modo di essere. Allora Sofia si confortava da sé, conosceva il peso della sofferenza in modo tangibile e sceglieva a distanza di anni di voler rimproverare a Beniamino e Irma le manchevolezze che le avevano preservato. E da molti anni ormai ci metteva sempre la sua buona dose di severità nel confezionare per gli apprendisti giudizi assai spietati. E il suo pensiero restava unico a trasformarsi in una domanda che mai nessuno avrebbe avuto la capacità e il buon senso di padroneggiare con una risposta dignitosa: perché mai mettere al mondo una figlia che non vuole nascere? Perché mai mettere al mondo creature per lasciarle allo sbando e sottoporle a continue pene? L’amore, quello che conosceva Sofia confrontandosi col mondo esterno da casa Brienza aveva molto a che fare anche con la responsabilità. Lei non avrebbe mai voluto entrare nelle questioni personali tra Irma e Beniamino. Aveva difficoltà persino a entrare nella loro storia, ne sapeva ben poco tra l’altro. Sapeva bene però che i sentimenti sono spesso l’andare irrazionale di moti dell’anima e allora ben venga l’amore degli apprendisti, nonostante la malattia di Beniamino. Il loro matrimonio era un affare che conteneva solo loro due, avrebbe dovuto bastare ad entrambi. Gli apprendisti avrebbero dovuto sapere e capire che il loro amore doveva bastare a se stessi, ché l’amore è irrazionale, certo, ma la malattia no, allora di coinvolgere delle creature… perchè mai? Quella figlia, agli occhi di Sofia stessa che cresceva, acquisiva solo il gesto privo di generosità e di amore. Il resto manca di amore. E allora mettere al mondo dei figli in casa Brienza era solo il risultato di un desiderio naturale e irrazionale. Una scelta priva di presa di coscienza, un gesto d’amore ingenuo, superficiale, che privato di generosità pura e responsabile e armato invece di egoismo perdeva ogni consistenza e dedizione reale. Ad amarsi tra di loro senza metter al mondo figli certi apprendisti farebbero il più grande gesto d’amore della coppia e verso quei figli che non è il caso di mettere al mondo.
A prendere l’altra direzione invece Sofia si affacciava a una nuova vita, senza sapere quale potesse essere il vero ritmo di una vita senza amore. Immaginava di potersi mettere lì a privarsi dell’amore come sapeva privarsi di un paio di scarpe vecchie, ché alle scarpe lei teneva molto. Erano necessarie, piacevano al mondo, quello della farsa e delle apparenze e a cui Sofia riusciva a dare un’immagine personale di sé con estrema nonchalance. Allora sì d’impatto le sembrava un’operazione da poco: se buttava le scarpe vecchie allora Sofia poteva buttare anche l’amore.
Decideva di mettersi in guardia da sola, tenersi sott’occhio, sbrigare ancora le questioni di Beniamino, ma senza intralci amorosi. E poteva restare a guardarsi, a spiarsi, e se un giorno mai quella malattia l’avrebbe colpita allora sarebbe stata fiera di sé, perché avrebbe compiuto il più grande gesto d’amore della sua vita: non avrebbe coinvolto nessuno.
Per anni questa scelta l’aveva portata a riversarsi coi tacchi alti nei bassifondi, era il suo modo di vivere in qualche modo lo stesso. Del resto sebbene avesse preso un tacito accordo con l’amore che prevedeva l’ignorarsi a vicenda, le pulsioni sessuali e sentimentali non erano certo roba da poter eliminare a tavolino. E così le relegava in posti, situazioni, ambienti e soprattutto con uomini dei quali Sofia sapeva non potersi mai innamorare, perché avrebbero sempre preferito gli uomini a lei. In compenso le potevano regalare affetto, molto, e qualche momento di appagamento sessuale; poi convogliare quel rapporto verso altre direzioni, anche verso nessuna talvolta, sarebbe stato assai facile.
Del resto Sofia il più delle volte viveva le situazioni ai margini, era il suo modo: osservare, percepire, ma non entrare troppo a fondo, ché a entrare dentro le cose spesso è come buttarsi in un fuoco che divampa. Calarsi nei posti, gironzolare con un drink in compagnia, sorridere, chiacchierare e disperdere poi lo sguardo all’orizzonte era sempre il suo fare.
Forse era un vivere a metà, un preservarsi, un sopravvivere o anche solo l’unico modo che col tempo affinava per proseguire. Nell’attesa, forse, che un giorno quella patologia l’avrebbe invasa con urgenza o di soppiatto.
E se poi la malattia non l’avrebbe mai colta? Avrebbe perso tutta la sua vita ingannandosi che senza amore in questo mondo ci si può stare lo stesso, ci si può adattare. Si sarebbe inaridita e si sarebbe avvizzita come le volte che pronunciava il verbo lasciare, che continuava a detestare.
Ma è vero sì, essere lì a controllarsi a cercare di capire quando e se la patologia sarebbe arrivata era una questione che aveva della missione incredibile: era l’annientamento di sé, era un sentirsi anonima e avara con se stessa, era noioso, sterile disumano, era lo scoprire finanche che in quei giri di giostra che sono l’altalenarsi continuo si storielle di poco conto e con uomini assai lontani da lei stessa, l’amore lei lo percepiva sempre come qualcosa che, seppur gettato via doveva tenere a bada. Già, perché aveva il suo potere e con questo provava ad affacciarsi da Sofia con indiscrezione, ma anche con la sua rispettabile e dignitosa riconoscibilità.
Per anni Sofia aveva affinato l’abilità di ignorarlo, come si fa con le cose scomode, che si sceglie di ignorare a volte.
La resa dei conti aveva presentato un conto assai amaro.
Sofia pensava a un rimedio necessario: dell’instabilità di cui la sua crescita accanto a Beniamino l’aveva forgiata voleva farne una risorsa. E ci avrebbe messo anni e anni, ma ce l’avrebbe fatta con una naturalezza quasi disarmante e un risultato forse ancora più sconcertante.



L’amore diventava altro da quello che aveva conosciuto in quella lunga storia d’amore.
Non era la quotidianità, il costruire insieme, il condividere… l’amore era tutt’altra faccenda ma lo riconosceva.
Lei sapeva di esserci vicino nel tempo che trascorreva con quell’uomo, poi lui andava via, per giorni, settimane, e c’era il nulla tra loro in quei tempi morti, che Sofia però si faceva andare bene lo stesso. Poi lui tornava o lei tornava da lui e quando erano lì a mischiarsi di nuovo tra loro a Sofia bastava un attimo ogni volta per sorridergli di nuovo e riconoscere l’amore.
In silenzio però. Ché Sofia di amore non ne voleva ancora parlare.
Ma questa è già un’altra storia.
Questa è la resa dei conti.
Tutto il resto sarebbe avvenuto poi e a meritare altre pagine.

lunedì 14 giugno 2010

OPPORTUNISMO FELINO, di Laura Costantini e Loredana Falcone



Sii gatto. Lo sai che la vecchia in cambio del salmone ti costringerà a startene impalato davanti a una tavoletta ouja tutta la sera. È una questione di dignità. Quella è convinta che due vibrisse e una macchia bianca in fronte bastino a rendere speciale un felis catus qualsiasi. Pretende che tu la metta in comunicazione con i morti. Io l’unico morto che ho visto è stato l’uomo che mi ha preso con sé quando avevo ancora gli occhi chiusi. Non gliela perdono di avermi lasciato solo a farmi sbattere in strada da quelli della sua razza. A scegliere tra morire di fame o consegnarmi alla vecchia… Mai sentito un profumo così. Sai che ti dico? Mi consegno alla vecchia. Sto sbavando come un cane qualsiasi, perfino lo stomaco mi fa le fusa.
No, prima il pesce, poi la tavoletta ouja. I patti sono patti. E nella ciotola, per cortesia, che l’ultima volta ho rischiato di lasciare la lingua sul tegame bollente. Ecco, brava, hai capito. Dài, la carezza l’accetto, ma poi lasciami mangiare in pace, ché sono due giorni che non metto niente sotto i denti. E io, sia chiaro, topi non ne mangio.
Arrivo. Si può sapere perché tanta fretta? I morti non scappano. Lasciami lappare il fondo della ciotola. Il meglio resta sempre lì. E no, non c’è bisogno che mi prendi in braccio. Ci salgo da solo sul tavolo. Ormai conosco la procedura. Ecco, mi metto qui, immobile e magari m’addormento pure. C’è un bel calduccio e sono proprio sazio. Sì, ho capito. Vuoi che stia lì a guardarti, ma stanotte gela e non riuscirai a cacciarmi via. Venduto per venduto, è meglio un tappeto di polvere che le foglie fradice sotto la panchina. Sei pronta? Allora vado con il miagolio evocativo.

E poi dicono che i gatti sono traditori. Ho fatto tutto per benino, ho assunto la posa da gatto egizio, ho ondeggiato la coda e miagolato al momento giusto. Un’interpretazione da oscar e il risultato? C’è mancato poco che prendesse la scopa per sbattermi fuori. Ingrata. La prossima volta non mi muovo per meno di un trancio di pesce spada. Sempre se ci sarà una prossima volta. Il tempo si sta mettendo al brutto e io sono cagionevole di salute. Lo diceva pure il veterinario. Pasti regolari, temperatura costante e il giusto riposo. L’età non ammette strapazzi. Altro che strapazzi. Senti come tuona. Se non rimedio un rifugio per la notte, alla prossima seduta spiritica, sul tavolo della vecchia ci finisco imbalsamato.
E questa che vuole? No, ti prego, in braccio no. Guarda che ti graffio. Sì, va be’, ti graffio. Con tutti quei piercing, mi sa che ti faccio un favore. Si può sapere dove stiamo andando? Non mi piacciono gli ascensori. Una volta ci sono rimasto dentro e ho miagolato da strappare il cuore. Nel palazzo ancora se lo ricordano.
Sicura di sapere dove stiamo andando? No, perché io al buio ci vedo, ma tu stai annaspando e non vorrei che mi cadessi addosso. Ho le ossa fragili, io. Che umidità, c’è puzzo d’acqua stagnante. Ah, siamo nei lavatoi. Ragazza, non facciamo scherzi. Io sono pulitissimo e comunque i gatti non si lavano. E adesso perché usciamo? Sta piovendo, ti bagni pure tu. Senti che vento. E coi fulmini come ti metti? Non so chi sia la stronza di cui stai parlando, ma per i miei gusti questo parapetto è troppo basso. Guarda che quella che i gatti cadono sempre a quattro zampe è una balla. Dipende dal gatto. Dipende dall’età. Dipende dall’altezza. Saranno almeno sei metriiiiiiiii…

Più bastarda di un cane bastardo. Ecco cosa sei. Iniziamo dalla coda. Si muove. Zampa anteriore destra, sinistra. Anche dietro… be’, pensavo peggio. Alla mia età, un volo così e sono ancora tutto intero. E tutto bagnato. Viene giù a secchiate. Stavolta il cimurro non me lo leva nessuno. Se solo riuscissi… Fermi tutti, la finestra è aperta. Mi intrufolo, ventre a terra e orecchie dritte. Non sai mai come reagiscono gli umani. Appunto. Che c’è da strillare? Sono un gatto, mica una tigre inferocita. Ehi, aspetta. No, il lancio di piatti no. Rischi di farmi male sul serio. Ma non ragioni proprio.
L’hai voluto tu. Mi infilo sotto il divano e voglio vedere come te la cavi. Fa pure un bel calduccio e il tappeto è folto come piace a me.
Ah, ci voleva proprio un bel pisolino. Mi sono pure asciugato. Quasi quasi faccio un po’ di fusa e magari quella si calma e capisce pure che non c’è motivo di aver paura. E questo chi è? La tipa ha chiamato i rinforzi. Ma allora è un vizio quello di prendermi in braccio. Ma lo volete capire che un gatto ha una dignità? Non sono mica un pupazzo io. Guarda amico, non ti graffio solo perché hai una faccia simpatica. Non deve essere facile neanche per te vivere con quella lì. Bravo, diglielo, sono solo un gatto. Un bel gatto a dirla tutta. E non porto sfiga, non starla a sentire. E nemmeno malattie. Sei proprio un ragazzo intelligente. Dì, non starai mica considerando l’idea di adottarmi? Il posto è accogliente, non avrei nulla da obiettare. Io. Lei invece… No, non sono il gatto della tipa col piercing. Sì, è stata lei a lanciarmi dal terrazzo. E non lo so se è una vendetta perché l’hai mollata, sono cose da umani. So solo che ho rischiato di sfracellarmi sul vostro terrazzo e che non sarebbe male se teneste conto che… Ho capito. Niente da fare. Almeno mi sono asciugato.

Che cuore, lasciarmi così, sul pianerottolo in questa notte di tregenda. Potrei miagolare tutto il mio disappunto. Così imparate… Erano anni che non facevo tante scale. Sono tutto un dolore e non mi dispiacerebbe mettere qualcosa nello stomaco. Una soluzione ci sarebbe. La bambina del terzo piano. Mi spupazza come fossi un bambolotto, però mi riempie di croccantini e a pancia piena il freddo si sopporta meglio. Che faccio, gratto?
Eccomi qua. Col fiocco al collo come Winnie the pooh, infilato nella culla e con un principio di mal di mare. Almeno cambiasse ninna nanna. No, quella schifezza che chiami pappa non la mangio. Da’ retta alla mamma, va’ a prendere i croccantini. Quelli sì che li mangio tutti, mammina. E attenta col pannolino, che mi strappi il pelo. Ehi, quella è una coda, non la puoi arrotolare. Lasciami la coda, lascia.
Eh no. Senza croccantini non me ne vado. Mica l’ho fatto apposta a graffiarla. Mi sono fatto seviziare per più di un’ora e adesso mi merito la ricompensa.

Bella ricompensa. Preso a calci nel didietro come l’ultimo dei randagi. Finisce sempre così. Tutti micio micio all’inizio, poi quando hanno avuto quello che volevano… Be’, adesso non esageriamo. Stiamo chiedendo un po’ troppo. Non sono castrato, ci mancherebbe signora mia. E fino a qualche anno fa mi sono fatto onore con tutte le gatte del circondario. Non insista signora, la sua micetta è davvero un amore ma, mi duole ammetterlo, la macchia in cui tutti vi ostinate a vedere qualcosa di sovrannaturale è un raro segno di vecchiaia. Lo so, è strano che un gatto ingrigisca ma tant’è. Nessuna magia, nessun mistero e… nessuna cucciolata con la frezza bianca. Sono vecchio.

Ecco che ci si ricava a essere sinceri. È già tanto che non mi abbia cacciato fino in cortile. Il sottoscala non è il massimo, ma almeno è asciutto. Devo solo essere abbastanza svelto da evitare la signora delle pulizie domani mattina. Quella ha una mira con la scopa che pare un cecchino. Mi sistemo qui, nell’angolino più caldo, dove passano i tubi della caldaia. E anche i topi… No, non sarò mai a questo punto. Non finché loro saranno umani e io gatto. E adesso buonanotte, ché domani si ricomincia col solito giro.

lunedì 7 giugno 2010

IL FELINO VOLANTE, di Gianluca Colloca





IL FELINO VOLANTE,
di Gianluca Colloca



Lì in piazzetta, gli amici lo sapevano tutti chi era Cacitorello. Qualcuno lo conosceva direttamente, per essere stato a casa di Andrea qualche volta, negli anni passati o pure più di recente. Chiaro che non si è mai trattato di visite per conoscere Cacitorello, quello no. Anzi, lui odiava gli estranei. Si saliva all’appartamento di Andrea perché ovviamente c’era qualcosa da fare con Andrea stesso, tipo giocare con l’Atari o scambiarsi delle figurine o ascoltare un disco. Più o meno come si poteva andare a casa di chiunque altro, se non per la differenza che alcuni possedevano l’Atari e altri il Commodore 64.
Comunque, quando dico che bisognava “salire” fino da Andrea, non intendo usare una metafora. Infatti il suo palazzo era posto in un comprensorio giusto in cima a una collinetta, e per arrivarci o si aspettava l’unico autobus che deviava per quell’agglomerato periferico – e l’evento si ripeteva soltanto una volta all’ora – oppure ci si armava di pazienza e resistenza, e si iniziava a salire. Dalla strada principale toccava camminare per venti minuti buoni, lungo una erta ripida che infastidiva le giunture delle ginocchia. Forse per questo a trovare Andrea si recavano in pochi, e ascoltare i dischi o giocare ai videogames si preferiva andarlo a fare nella stanzetta di qualcun altro. Andrea compreso, visto che si scocciava a sua volta a fare tutti i giorni quella maledetta salita.
Quindi, per quanto scontroso, a Cacitorello non si poteva imputare nulla. Anzi, era forse proprio questa problematica logistica a far sì che non fosse abituato a incontrare ospiti – che il suo padrone non fosse abituato a ricevere ospiti, a voler essere precisi – ma per forza di cose la situazione toccava anche il gatto di casa. Fatto sta che Cacitorello, solito tendenzialmente a frequentare soltanto Andrea – o al massimo suo padre Enzo – era diventato inevitabilmente diffidente verso gli estranei. Già i gatti spesso tendono ad esserlo per loro natura. Lui, di più.
Di conseguenza Cacitorello, piccolo e grazioso in tenera età, sempre più cicciotto mano a mano che proseguiva nella crescita, quando vedeva un ospite nella cameretta di Andrea subito cercava di saltargli addosso e graffiarlo.
“È geloso, non ti preoccupare”, spiegava Andrea con tono calmo, come se ritrovarsi contro un gatto furioso fosse la cosa più naturale del mondo. Il tutto ovviamente senza muovere in aiuto dell’amico che nel frattempo cercava di staccarsi di dosso l’incazzoso felino.
Dopo qualche minuto Cacitorello per fortuna si calmava, restando però accucciato in un angolo del letto di Andrea, a fissare torvo l’ospite nell’attesa che sloggiasse. Quando realizzava, di solito dopo un’altra manciata di minuti, che il suddetto ospite non se ne sarebbe andato via tanto presto, preferiva sloggiare lui, offeso. Siccome non si trattava di un gran viveur ed era stato abituato a muoversi quasi esclusivamente nell’appartamento – e forse con l’intento di far notare comunque la sua offesa presenza – Cacitorello si andava a infilare in una delle scarpe da ginnastica di Andrea, dritto di testa, e poi di solito ci metteva un’oretta buona prima di riuscire a liberarsene.
Ma non era per questi motivi che tutti conoscevano quel gatto, nel nostro giro di amicizie e conoscenze. In fondo, da ragazzini, quasi a chiunque di noi bastava un niente per farsela girare male e venire alle mani. C’era poco da meravigliarsi di quel micio, allora. Eppure, diversi anni prima, era accaduto un fatto – poi puntualmente raccontato e ripetuto più e più volte, nei pomeriggi e nelle sere e nelle mattine in cui si segava scuola – che aveva permesso a Cacitorello di divenire una figura familiare anche per coloro i quali mai l’avevano visto, mai erano stati a casa di Andrea, mai erano stati assaliti dalle sue grinfie. Dirò di più, anche quelli che conoscevano a malapena Andrea, o non sapevano proprio chi fosse, ma magari erano solo amici di amici, pure loro sapevano invece benissimo chi fosse Cacitorello, e lo tenevano in simpatia.
Si trattava di un evento che riportava la mente indietro di qualche anno, quando ci si vestiva coi pantaloni alla zuava e il taglio dei capelli lo decidevano i genitori. Andrea, all’epoca, era un bimbetto appassionato di calcio e musica, non dissimile da qualsiasi suo coetaneo. Troppo piccolo per darsi alla vita da rockstar, andava a dormire presto sapendo che la mattina successiva lo attendeva la scuola.
Una notte, mentre sognava pastelli o macchinine o chissà cos’altro, il suo sonno fu disturbato da qualcosa. Il tempo di aprire in parte occhi e orecchie, e subito si rese conto che si trattava di grida umane. Bloccato dalla stanchezza, decise di fare uno sforzo ulteriore per capire con precisione cosa stesse accadendo, magari c’era un’emergenza e bisognava correre via. Così, con fatica, riuscì a spalancare i sensi, per comprendere finalmente come le urla che stava ascoltando fossero di suo padre, e in linea di massima potevano essere catalogate alla voce bestemmie. Bestemmie ben distinguibili, per quanto ancora in parte sconosciute alle sue orecchie di infante.
In quei pochi secondi il piccolo Andrea, non sapendo bene come comportarsi, seguì solo l’istinto di accendere l’abatjour sul comodino. La debole luce illuminò così la sua stanzetta disegnando timidamente, attraverso la porta aperta, il corridoio che gli stava di fronte. Fu un attimo, e Andrea vide Cacitorello volare nell’aria, attraverso il corridoio, da sinistra a destra, fuori dalla camera da letto di suo padre e dritto dentro la cucina, entrambe per fortuna con la porta aperta a loro volta. Andrea in realtà non capì subito che si trattava di Cacitorello, poco riconoscibile nella penombra sotto forma di una grossa palla scura che attraversava ad altezza d’uomo il corridoio e il campo visivo. Il miagolio mosso del felino gli fece però intuire in pochi istanti chi fosse a volare lì per la casa.
Suo padre intanto continuava a bestemmiare, alternando giusto qualche maledizione nei confronti del gatto. A quel punto ad Andrea bastò poco per capire che Cacitorello, in calore e desideroso di segnare il territorio, aveva fatto la pipì proprio in faccia ad Enzo, mentre questi dormiva.
Da allora la storia venne raccontata circa mille volte, agli amici e agli amici di amici. Per questo Cacitorello lo conoscevano tutti, lì in piazzetta, dove nel frattempo si erano susseguite persone e stagioni, gioie e delusioni, crescite e fughe. E proprio per questo a tutti un po’ dispiacque quando si venne a sapere che il micio se n’era andato – non per una vendetta di Enzo, ma per vecchiaia, a circa un decennio di distanza da quella famosa notte.
Gli volevano tutti un poco di bene, a Cacitorello.