lunedì 7 giugno 2010
IL FELINO VOLANTE, di Gianluca Colloca
IL FELINO VOLANTE,
di Gianluca Colloca
Lì in piazzetta, gli amici lo sapevano tutti chi era Cacitorello. Qualcuno lo conosceva direttamente, per essere stato a casa di Andrea qualche volta, negli anni passati o pure più di recente. Chiaro che non si è mai trattato di visite per conoscere Cacitorello, quello no. Anzi, lui odiava gli estranei. Si saliva all’appartamento di Andrea perché ovviamente c’era qualcosa da fare con Andrea stesso, tipo giocare con l’Atari o scambiarsi delle figurine o ascoltare un disco. Più o meno come si poteva andare a casa di chiunque altro, se non per la differenza che alcuni possedevano l’Atari e altri il Commodore 64.
Comunque, quando dico che bisognava “salire” fino da Andrea, non intendo usare una metafora. Infatti il suo palazzo era posto in un comprensorio giusto in cima a una collinetta, e per arrivarci o si aspettava l’unico autobus che deviava per quell’agglomerato periferico – e l’evento si ripeteva soltanto una volta all’ora – oppure ci si armava di pazienza e resistenza, e si iniziava a salire. Dalla strada principale toccava camminare per venti minuti buoni, lungo una erta ripida che infastidiva le giunture delle ginocchia. Forse per questo a trovare Andrea si recavano in pochi, e ascoltare i dischi o giocare ai videogames si preferiva andarlo a fare nella stanzetta di qualcun altro. Andrea compreso, visto che si scocciava a sua volta a fare tutti i giorni quella maledetta salita.
Quindi, per quanto scontroso, a Cacitorello non si poteva imputare nulla. Anzi, era forse proprio questa problematica logistica a far sì che non fosse abituato a incontrare ospiti – che il suo padrone non fosse abituato a ricevere ospiti, a voler essere precisi – ma per forza di cose la situazione toccava anche il gatto di casa. Fatto sta che Cacitorello, solito tendenzialmente a frequentare soltanto Andrea – o al massimo suo padre Enzo – era diventato inevitabilmente diffidente verso gli estranei. Già i gatti spesso tendono ad esserlo per loro natura. Lui, di più.
Di conseguenza Cacitorello, piccolo e grazioso in tenera età, sempre più cicciotto mano a mano che proseguiva nella crescita, quando vedeva un ospite nella cameretta di Andrea subito cercava di saltargli addosso e graffiarlo.
“È geloso, non ti preoccupare”, spiegava Andrea con tono calmo, come se ritrovarsi contro un gatto furioso fosse la cosa più naturale del mondo. Il tutto ovviamente senza muovere in aiuto dell’amico che nel frattempo cercava di staccarsi di dosso l’incazzoso felino.
Dopo qualche minuto Cacitorello per fortuna si calmava, restando però accucciato in un angolo del letto di Andrea, a fissare torvo l’ospite nell’attesa che sloggiasse. Quando realizzava, di solito dopo un’altra manciata di minuti, che il suddetto ospite non se ne sarebbe andato via tanto presto, preferiva sloggiare lui, offeso. Siccome non si trattava di un gran viveur ed era stato abituato a muoversi quasi esclusivamente nell’appartamento – e forse con l’intento di far notare comunque la sua offesa presenza – Cacitorello si andava a infilare in una delle scarpe da ginnastica di Andrea, dritto di testa, e poi di solito ci metteva un’oretta buona prima di riuscire a liberarsene.
Ma non era per questi motivi che tutti conoscevano quel gatto, nel nostro giro di amicizie e conoscenze. In fondo, da ragazzini, quasi a chiunque di noi bastava un niente per farsela girare male e venire alle mani. C’era poco da meravigliarsi di quel micio, allora. Eppure, diversi anni prima, era accaduto un fatto – poi puntualmente raccontato e ripetuto più e più volte, nei pomeriggi e nelle sere e nelle mattine in cui si segava scuola – che aveva permesso a Cacitorello di divenire una figura familiare anche per coloro i quali mai l’avevano visto, mai erano stati a casa di Andrea, mai erano stati assaliti dalle sue grinfie. Dirò di più, anche quelli che conoscevano a malapena Andrea, o non sapevano proprio chi fosse, ma magari erano solo amici di amici, pure loro sapevano invece benissimo chi fosse Cacitorello, e lo tenevano in simpatia.
Si trattava di un evento che riportava la mente indietro di qualche anno, quando ci si vestiva coi pantaloni alla zuava e il taglio dei capelli lo decidevano i genitori. Andrea, all’epoca, era un bimbetto appassionato di calcio e musica, non dissimile da qualsiasi suo coetaneo. Troppo piccolo per darsi alla vita da rockstar, andava a dormire presto sapendo che la mattina successiva lo attendeva la scuola.
Una notte, mentre sognava pastelli o macchinine o chissà cos’altro, il suo sonno fu disturbato da qualcosa. Il tempo di aprire in parte occhi e orecchie, e subito si rese conto che si trattava di grida umane. Bloccato dalla stanchezza, decise di fare uno sforzo ulteriore per capire con precisione cosa stesse accadendo, magari c’era un’emergenza e bisognava correre via. Così, con fatica, riuscì a spalancare i sensi, per comprendere finalmente come le urla che stava ascoltando fossero di suo padre, e in linea di massima potevano essere catalogate alla voce bestemmie. Bestemmie ben distinguibili, per quanto ancora in parte sconosciute alle sue orecchie di infante.
In quei pochi secondi il piccolo Andrea, non sapendo bene come comportarsi, seguì solo l’istinto di accendere l’abatjour sul comodino. La debole luce illuminò così la sua stanzetta disegnando timidamente, attraverso la porta aperta, il corridoio che gli stava di fronte. Fu un attimo, e Andrea vide Cacitorello volare nell’aria, attraverso il corridoio, da sinistra a destra, fuori dalla camera da letto di suo padre e dritto dentro la cucina, entrambe per fortuna con la porta aperta a loro volta. Andrea in realtà non capì subito che si trattava di Cacitorello, poco riconoscibile nella penombra sotto forma di una grossa palla scura che attraversava ad altezza d’uomo il corridoio e il campo visivo. Il miagolio mosso del felino gli fece però intuire in pochi istanti chi fosse a volare lì per la casa.
Suo padre intanto continuava a bestemmiare, alternando giusto qualche maledizione nei confronti del gatto. A quel punto ad Andrea bastò poco per capire che Cacitorello, in calore e desideroso di segnare il territorio, aveva fatto la pipì proprio in faccia ad Enzo, mentre questi dormiva.
Da allora la storia venne raccontata circa mille volte, agli amici e agli amici di amici. Per questo Cacitorello lo conoscevano tutti, lì in piazzetta, dove nel frattempo si erano susseguite persone e stagioni, gioie e delusioni, crescite e fughe. E proprio per questo a tutti un po’ dispiacque quando si venne a sapere che il micio se n’era andato – non per una vendetta di Enzo, ma per vecchiaia, a circa un decennio di distanza da quella famosa notte.
Gli volevano tutti un poco di bene, a Cacitorello.
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