a Luigi e a Riccioli d'Oro
Sofia ha amato un uomo per molto tempo e di quell’amore Sofia ne ha fatto un dono prezioso per sette anni.
Poi così come la vita all’improvviso sapeva mostrarsi cruenta, visionaria e delirante anche l’amore per Sofia acquisiva solo un peso insostenibile. E Già. Amare si trasformava in una rima stupida e diveniva d’improvviso un non sopportare e voler osteggiare ad ogni costo l’amore stesso.
Sofia negli anni e in quelle finissime sfumature dure di vita quotidiana affinava col tempo un’indiscussa capacità: cominciava senza rendersene conto a prendere troppa confidenza e familiarità con sentimenti sgarbati, sconvenienti, instabili. Scopriva che la vita di Beniamino negli anni e con lentezza l’aveva condotta in una strada che, paradossalmente, prendeva distanze determinanti dall’amore. Sofia che amava il silenzio, la stabilità, la cura, la delicatezza, a poco a poco si ritrovava a sopravvivere e convivere con la confusione, la noncuranza di sé, la sfrontatezza, l’instabilità delle cose e di ogni sfumatura e questione che la circondava. E così i racconti di Sofia che nero su bianco vomitano brutture, sentimenti duri, devianti, deliranti e a volte d’abbandono, non avevano che un pregio: mettere Sofia ogni volta di fronte a quello che il tempo, le circostanze e la vita avevano fatto di lei e che lei per anni aveva dimenticato o rimosso e vissuto con troppa voracità.
Capiva che aveva accolto e si era posta nella sua vita malamente e per lunghi anni un unico obiettivo e finalità: prendersi cura di Beniamino e incedere con iniziale inconsapevolezza verso l’allontanamento da se stessa. Ha la eco di un sacrificio tutto questo. Ma un sacrificio che a lungo andare si presentava nell’esistenza di Sofia come un’assoluta strategia di vita, un’autodifesa, o chissà, una semplice e inconscia arma di sopravvivenza, che dir si voglia.
E i sacrifici hanno il dono e il privilegio di essere un’offerta che si rende a qualcuno, a qualcosa. Sono una rarissima ma potentissima forma d’amore, di generosità, proprio come la scrittura; e come la scrittura sono necessari, vivono e richiedono costante pazienza, cura, tempo e dedizione.
Quando Sofia sceglieva di abbandonare l’amore era il tempo in cui aveva radunato tutte le sue magagne passate, ma percepiva indispensabile donarsi solo al sacrificio perché come per ogni questione anche per le sue faccende era giunto il momento della resa.
La resa di Sofia arrivava col fare di una cosa elaborata negli anni ma con l’impeto di un qualcosa di imprevisto e accecante.
Lei non aveva alcun dubbio che la vita fosse un dono prezioso tanto quanto sapeva che con questo mondo che è farsa e apparenza non voleva avere nulla a che fare. Il ricordo della gravidanza di Irma ne era stata una chiara dimostrazione: un’allettarsi di sei mesi assolutamente necessario per farla venire al mondo. Ma non ci sarà forse un motivo perché qualcuno sceglie di non nascere? Ci vuole una generosità e una grazia inestimabile per capire che il diritto alla morte talvolta richiede un rispetto assoluto e doveroso. Sofia, raccontavo, nasceva però; e poi cresceva immersa a occuparsi delle questioni di Beniamino, conoscendolo padre e scoprendolo uomo, ma un uomo-padre e malato da sempre, allora sempre assai diverso nei modi e nel dire e da un giorno all’altro senza preavviso, senza chiedere permesso. Allora Sofia scappava da lui, ma poi la responsabilità e l’amore fatto anche di odio e brutture la rigettavano in casa, sempre. E poi le cliniche, il suo rapporto ambiguo e promiscuo in certe situazioni, la storia del suo matrimonio con Irma, Il matrimonio degli altri, appunto. E il suo essere padre, Apprendista sempre ma sempre anche in bilico tra uno stato di indecorosità e dignità oltre misura. Immancabilmente risultava sempre così eccessivo, o da una parte o dall’altra. Era così il padre che scovava a letto di un’altra madre, lo sguardo di Sofia che dimenticava l’andare di certe giornate amare e che ahimè, poi, la memoria andava a ripescare a distanza di anni. Era chi l’aveva privata per anni dei parenti più vicini e Sofia ancora lì a cercare la normalità – che non esiste e che credeva però di meritare-. Allora si metteva lì a costruirsi la sua famiglia congeniale e meritevole. Sfornava nonni a iosa, zii, cugini, padri e madri a sua immagine e somiglianza, faceva la Pasqua con una famiglia Pasquetta con un’altra, e piangeva morti che non avevano il suo stesso sangue. Addobbava alberi che non erano il Natale tra le mura di quella casa di famiglia e lì dentro invece aspettava la mezzanotte. Col nascere del bambinello lei avrebbe percorso altre strade, avrebbe abbandonato una tavola bandita a festa di torroni, pan forti e spumante per affacciarsi più spontanea a discettare con la famiglia scelta da lei e gustare quella pinta che in quel giorno misero e ipocrita era il dono più gustoso che ammetteva. Le famiglie che Sofia si costruiva e portava con sé ogni volta erano sempre molto accoglienti e amorevoli. Ammirava estasiata Patrizia e Piero, il loro modo di essere genitori, la cura che mettevano nelle questioni familiari e anche quel fare generoso e accogliente che aveva fatto di Sofia la loro quarta figlia. Incontri come questi erano i soli a cui Sofia sapeva dedicare e mostrare attenzione e dedizione, a cui sapeva di dovere molto, assegnare un valore. Li catalogava allora tra le poche faccende preziose mentre Sofia continuava a vivere nel suo strambo modo di incedere.
E scoprire poi che catalogare cose e persone e vivere la vita come fosse un incastro di vari scompartimenti e per ognuno dei quali Sofia era in un modo assai differente, era la sua migliore attitudine. Del resto lei che conosceva il fare e il disfare di un Beniamino che ammetteva nelle questioni solo il nero e il bianco, maturava l’indispensabile e reale necessità di fare della vita un campionario di sfumature assai diverse e relative a persone, situazioni e momenti molto distinti tra loro.
Allora Sofia la ritrovavi lì beata e rigenerata a custodire il bene ricevuto da chi incontrava per caso, o per strada e nel reputarlo assolutamente prezioso e meritevole. Le sembrava sempre di non aver tempo, modo e intenzione di metterlo via. Era piuttosto la sua salvezza e l’unico modo con cui lei imparava e voleva vivere e per cui riusciva a dare un grande valore a questa esistenza che le apparteneva malamente e che l’aveva voluta al mondo per forza contro la sua stessa volontà.
Sofia era le storie raccontate a episodi tra queste pagine, storie narrate a pizzichi e bocconi e che nel corso degli anni avevano scelto di riaffiorare tra i ricordi che con evidenza dovevano trovare una loro collocazione e che le richiedevano continuamente tempo e pazienza per ricondurla ogni volta in uno spazio e in un tempo che fin troppe volte era caos e interrogativi. Si presentavano come confuse a volte e stralci di ricordi e flashback riprovevoli.
Erano poi l’innegabile conferma che le questioni prima o poi riaffiorano sempre e malamente: all’epoca si vomitavano addosso a Sofia tutte insieme, in una delirante danza d’abbandono e quando era il tempo in cui forse Sofia non aveva più posto di assorbire e contenere. Quello della resa, appunto.
E il tempo della resa può essere un momento assolutamente decisivo, totalizzante. Il momento che mettersi lì a fare i conti può essere inteso solo e necessariamente come lo scrollarsi di dosso ogni cosa, perché nel calderone di brutture e malessere di una vita assai tormentata anche l’amore riusciva a perdere la sua purezza e il suo essere a mischiarsi invece col tutto. Va da sé che Sofia lasciava quell’uomo consapevole che lasciare per lei era a prescindere un verbo che la avvizziva. Già. Ma era una scelta e Sofia doveva necessariamente scegliere. Quando lei metteva nero su bianco le sue storie in quelle pagine che diventavano una pubblicazione ormai nascosta. Sofia rifletteva sul suo lungo percorso, inconsapevole che avrebbe trascorso anni ancora più sofferti. Gli anni che dovevano essere i migliori della sua vita divenivano quelli in cui lei tra lesionismo, sensi di colpa e malessere paventava una paura indescrivibile che il male di Beniamino un giorno si sarebbe riversato anche nella sua vita. Temeva con ferocia che la diagnosi di Beniamino prima o poi avrebbe fatto capolino nella sua quotidianità invadendo e senza possibilità di appello il resto della sua vita.
Così Sofia sceglieva di correre al riparo e di preservare qualunque affetto profondo possedeva e avrebbe avuto dalla sofferenza che invade inevitabilmente chiunque abbia a che fare con persone che vivono con certe patologie. Ecco il momento della resa dei conti: e Sofia nel timore di far soffrire poi quell’uomo decideva di sbarazzarsene. Lo faceva dettata da quest’istinto di protezione, ma sceglieva di farlo anche in quattro e quattro otto senza voler nemmeno andare a fondo e sincerarsi con l’amato. Lasciava piuttosto che sgorgasse la sua voce fluida e con motivazioni sciocche e banali; quelle che dimenticarle è stata un’inezia.
Pensare ed elaborare che a un certo punto l’amore non può appartenere alla propria vita è una questione che Sofia viveva in due direzioni opposte. Si sentiva nobile e generosa verso chicchessia, ma anonima e avara verso se stessa. I buoni sentimenti del resto hanno sempre prevalso nel suo modo di essere. Allora Sofia si confortava da sé, conosceva il peso della sofferenza in modo tangibile e sceglieva a distanza di anni di voler rimproverare a Beniamino e Irma le manchevolezze che le avevano preservato. E da molti anni ormai ci metteva sempre la sua buona dose di severità nel confezionare per gli apprendisti giudizi assai spietati. E il suo pensiero restava unico a trasformarsi in una domanda che mai nessuno avrebbe avuto la capacità e il buon senso di padroneggiare con una risposta dignitosa: perché mai mettere al mondo una figlia che non vuole nascere? Perché mai mettere al mondo creature per lasciarle allo sbando e sottoporle a continue pene? L’amore, quello che conosceva Sofia confrontandosi col mondo esterno da casa Brienza aveva molto a che fare anche con la responsabilità. Lei non avrebbe mai voluto entrare nelle questioni personali tra Irma e Beniamino. Aveva difficoltà persino a entrare nella loro storia, ne sapeva ben poco tra l’altro. Sapeva bene però che i sentimenti sono spesso l’andare irrazionale di moti dell’anima e allora ben venga l’amore degli apprendisti, nonostante la malattia di Beniamino. Il loro matrimonio era un affare che conteneva solo loro due, avrebbe dovuto bastare ad entrambi. Gli apprendisti avrebbero dovuto sapere e capire che il loro amore doveva bastare a se stessi, ché l’amore è irrazionale, certo, ma la malattia no, allora di coinvolgere delle creature… perchè mai? Quella figlia, agli occhi di Sofia stessa che cresceva, acquisiva solo il gesto privo di generosità e di amore. Il resto manca di amore. E allora mettere al mondo dei figli in casa Brienza era solo il risultato di un desiderio naturale e irrazionale. Una scelta priva di presa di coscienza, un gesto d’amore ingenuo, superficiale, che privato di generosità pura e responsabile e armato invece di egoismo perdeva ogni consistenza e dedizione reale. Ad amarsi tra di loro senza metter al mondo figli certi apprendisti farebbero il più grande gesto d’amore della coppia e verso quei figli che non è il caso di mettere al mondo.
A prendere l’altra direzione invece Sofia si affacciava a una nuova vita, senza sapere quale potesse essere il vero ritmo di una vita senza amore. Immaginava di potersi mettere lì a privarsi dell’amore come sapeva privarsi di un paio di scarpe vecchie, ché alle scarpe lei teneva molto. Erano necessarie, piacevano al mondo, quello della farsa e delle apparenze e a cui Sofia riusciva a dare un’immagine personale di sé con estrema nonchalance. Allora sì d’impatto le sembrava un’operazione da poco: se buttava le scarpe vecchie allora Sofia poteva buttare anche l’amore.
Decideva di mettersi in guardia da sola, tenersi sott’occhio, sbrigare ancora le questioni di Beniamino, ma senza intralci amorosi. E poteva restare a guardarsi, a spiarsi, e se un giorno mai quella malattia l’avrebbe colpita allora sarebbe stata fiera di sé, perché avrebbe compiuto il più grande gesto d’amore della sua vita: non avrebbe coinvolto nessuno.
Per anni questa scelta l’aveva portata a riversarsi coi tacchi alti nei bassifondi, era il suo modo di vivere in qualche modo lo stesso. Del resto sebbene avesse preso un tacito accordo con l’amore che prevedeva l’ignorarsi a vicenda, le pulsioni sessuali e sentimentali non erano certo roba da poter eliminare a tavolino. E così le relegava in posti, situazioni, ambienti e soprattutto con uomini dei quali Sofia sapeva non potersi mai innamorare, perché avrebbero sempre preferito gli uomini a lei. In compenso le potevano regalare affetto, molto, e qualche momento di appagamento sessuale; poi convogliare quel rapporto verso altre direzioni, anche verso nessuna talvolta, sarebbe stato assai facile.
Del resto Sofia il più delle volte viveva le situazioni ai margini, era il suo modo: osservare, percepire, ma non entrare troppo a fondo, ché a entrare dentro le cose spesso è come buttarsi in un fuoco che divampa. Calarsi nei posti, gironzolare con un drink in compagnia, sorridere, chiacchierare e disperdere poi lo sguardo all’orizzonte era sempre il suo fare.
Forse era un vivere a metà, un preservarsi, un sopravvivere o anche solo l’unico modo che col tempo affinava per proseguire. Nell’attesa, forse, che un giorno quella patologia l’avrebbe invasa con urgenza o di soppiatto.
E se poi la malattia non l’avrebbe mai colta? Avrebbe perso tutta la sua vita ingannandosi che senza amore in questo mondo ci si può stare lo stesso, ci si può adattare. Si sarebbe inaridita e si sarebbe avvizzita come le volte che pronunciava il verbo lasciare, che continuava a detestare.
Ma è vero sì, essere lì a controllarsi a cercare di capire quando e se la patologia sarebbe arrivata era una questione che aveva della missione incredibile: era l’annientamento di sé, era un sentirsi anonima e avara con se stessa, era noioso, sterile disumano, era lo scoprire finanche che in quei giri di giostra che sono l’altalenarsi continuo si storielle di poco conto e con uomini assai lontani da lei stessa, l’amore lei lo percepiva sempre come qualcosa che, seppur gettato via doveva tenere a bada. Già, perché aveva il suo potere e con questo provava ad affacciarsi da Sofia con indiscrezione, ma anche con la sua rispettabile e dignitosa riconoscibilità.
Per anni Sofia aveva affinato l’abilità di ignorarlo, come si fa con le cose scomode, che si sceglie di ignorare a volte.
La resa dei conti aveva presentato un conto assai amaro.
Sofia pensava a un rimedio necessario: dell’instabilità di cui la sua crescita accanto a Beniamino l’aveva forgiata voleva farne una risorsa. E ci avrebbe messo anni e anni, ma ce l’avrebbe fatta con una naturalezza quasi disarmante e un risultato forse ancora più sconcertante.
L’amore diventava altro da quello che aveva conosciuto in quella lunga storia d’amore.
Non era la quotidianità, il costruire insieme, il condividere… l’amore era tutt’altra faccenda ma lo riconosceva.
Lei sapeva di esserci vicino nel tempo che trascorreva con quell’uomo, poi lui andava via, per giorni, settimane, e c’era il nulla tra loro in quei tempi morti, che Sofia però si faceva andare bene lo stesso. Poi lui tornava o lei tornava da lui e quando erano lì a mischiarsi di nuovo tra loro a Sofia bastava un attimo ogni volta per sorridergli di nuovo e riconoscere l’amore.
In silenzio però. Ché Sofia di amore non ne voleva ancora parlare.
Ma questa è già un’altra storia.
Questa è la resa dei conti.
Tutto il resto sarebbe avvenuto poi e a meritare altre pagine.
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