lunedì 31 maggio 2010
MINA, di Fabio Ciriachi
MINA,
di Fabio Ciriachi
Non so come facesse Mina a capire che ero arrivato. La Sassa dista da Fiume un centinaio di metri in linea d'aria; un poggio di quercioli la nasconde alla vista, e soltanto i suoni molto forti, col vento favorevole, superano distanza e ostacoli. Eppure sempre - poco dopo aver scaricato dall'auto bagagli e spesa, e aver messo a scaldare l'acqua per il tè - silenziosamente Mina appariva: magra, austera, le striature soriane di una chiarezza sempre più dilavata, quasi sabbiosa. Non si presentava da sola ma assieme a un numero incalcolabile di gattini; se non suoi, di qualche sua figlia al seguito, ancora più minuscola della madre e però, come lei, molto compresa del ruolo materno.
Che nelle mie buste della spesa ci fossero anche scatole di Kit Kat e la maxi confezione di croccantini lo sapevo io, lo sapeva la cassiera della Coop che mi aveva battuto il conto, ma non Mina. Eppure, per qualche strano percorso mentale, ne veniva a conoscenza, e poco dopo il mio arrivo, radunati figli e nipoti, si metteva alla testa del corteo che concludeva la sua marcia con un grande raduno sul poggiolo dove di solito passavo molte ore per l'incomparabile vista che da lì si gode sul paesaggio intorno.
Da capostipite Mina governava con flemmatica dignità una famiglia allargata che comprendeva sempre, oltre a cuccioli e puerpere, una o due femmine gravide. Grazie a una solida vocazione amorosa, la comunità felina era la sola in crescita su quei poggi appartati dove gli umani, al contrario, si riducevano anno dopo anno, sia per gli esodi dei giovani verso la pianura, che per le dipartite dei vecchi verso chissà dove, anche se d'inverno tutta quell'abbondanza veniva pesantemente falcidiata dal gelo notturno e dall'astuzia dei predatori, fatale per l'inesperienza dei più piccoli.
Dal colore del pelo si capiva subito se la paternità dei neonati era attribuibile al diavolo nero di Bruno, che si avvicinava guardingo alla Sassa solo per rubare il cibo ai figli, o non piuttosto al gatto bianco e rosso di Dante, che puntava le femmine in calore con l'indolenza di un vitellone. L'alternarsi dei padri era una certezza che, oltre a riflettersi nei colori della prole, mi faceva guardare a Mina con quella curiosità lievemente ammirata che si riserva, di solito, a chi è capace di sorprenderci.
Durante le mie lunghe assenze dalla Sassa, Mina e famiglia ruotavano attorno al poggiolo in legno della casa di Luli e Cristina, a Fiume. Lì ricevevano gli avanzi dei pasti, una manciata ogni tanto di croccantini, e qualche rada carezza femminile, attenzioni insufficienti a lenire il divieto di entrare in casa, che bruciava loro soprattutto d'inverno, quando nel grande camino d'angolo ardevano ciocchi di scoppiettante quercia.
In quel periodo, appena avevo un po' di tempo libero, correvo a rifugiarmi alla Sassa nel cui isolamento cercavo le condizioni migliori per imparare a morire. Non ero né depresso né gravemente malato, ma si era formata in me, non ricordo in che modo, la netta convinzione che non dovessi aspettare di esserlo per imparare qualcosa che di sicuro, prima o poi, mi sarebbe tornata utile.
Quanto difficile fosse seguire quel proposito si era mostrato evidente fin da subito. Ma dopo un primo smarrimento - così profondo da farmi disperare di poter mai riuscire - poco alla volta mi era parso di cogliere, se non la risposta, almeno la direzione giusta verso la quale muovere; che non doveva essere il progressivo distacco dalla vita ma, al contrario, un intensificarsi e raffinarsi dell'amore verso ogni suo aspetto. E poiché sentivo una grande affinità con le splendide manifestazioni della vita che sono gli alberi, gli uccelli, il vento, il cielo, appena possibile partivo per la Sassa dove potevo vivere a stretto contatto con quelli che sempre più, da semplici interlocutori, stavano diventando dei silenziosi maestri.
Radunatasi l'intera famiglia sul poggiolo, Mina cominciava a strusciarsi alle mie caviglie finché non l'accarezzavo. Allora, ronfante, arcuava la schiena e mi si spingeva con più forza contro, pestando gli artigli sulla pietra del pavimento; gli occhi serrati, il muso proteso. Dopo qualche minuto di coccole aprivo due scatolette di Kit Kat. Al solo rumore della latta recisa cominciava il coro dei miagolii, l'andirivieni agitato sulla soglia che avevano imparato a non superare. Distribuivo il cibo in due piatti che poggiavo in terra, e per un po' c'era solo il mugugnante basso continuo della fame appagata.
Quando il sole era dietro la casa mi spostavo sulla terrazza in ombra, e dopo aver sfiorato con lo sguardo il verde dei boschi, le querce del Pianale, il vento che animava le foglie dei pioppi, le nuvole a forma di nuvole nel profondo del cielo, seguivo, sull'aia, i giochi a corsa pazza dei cuccioli, la pigra attitudine di Mina e figlie grandi ad assumere pose di ieratica compostezza.
Un giorno in cui ero troppo preso da astratte difficoltà per accorgermi di quanto avveniva intorno (e se non vedevo neanche i gatti, quanta speranza mi restava di ascoltare gli imperturbabili maestri della natura?) di colpo Mina mi si parò davanti. Lì per lì non notai in lei alcun cambiamento, e però mi guardava in modo diverso dal solito. Soprattutto, era palese, chiedeva; cosa che, nella nostra saltuaria frequentazione, non era mai capitata, giacché quanto le davo appagava sempre ogni suo desiderio. Ora, invece, faceva una spola inquieta tra la cucina e il poggiolo, come se mi dicesse di andarle dietro. Via via che la seguivo, si agitava sempre più, e con quel suo andirivieni frenetico finì per guidarmi verso la mia camera.
Arrotolai la stuoia che faceva da porta, e infine compresi. Nel centro del grande letto con la sovraccoperta bianca, sprofondati in una sorta di nido fatto di pelo, straccetti e altre morbidezze, pulsavano, come bolle di uno stesso respiro, sei o sette gattini appena nati. Rimasi incantato ad ammirarli, così delicatamente vivi che temevo quasi, non dosando lo sguardo, di far loro del male.
Mina doveva aver colto la mia approvazione e, rassicurata, stava lì seduta a guardarmi; le piccole mammelle gonfie di latte che spuntavano dal grigio dei peli, fiera di una scelta trasgressiva che in quel caso, però, la mia complicità le confermava opportuna. Si lasciò carezzare a testa china, poi saltò agilmente sul letto e si acciambellò attorno ai suoi piccoli offrendosi alla loro fame.
Grazie a lei, quel pomeriggio, molte delle mie inquietudini di colpo svanirono, e potei sedermi con animo aperto al mio osservatorio preferito a interrogare i maestri; che intanto, tutt'intorno, continuavano a raccontare i loro imperscrutabili misteri.
Seguirono anni in cui, troppo preso da ineludibili impegni, potei recarmi sempre meno alla Sassa. La casa cominciò a nascondersi tra i viluppi della vegetazione e, come fanno spesso i luoghi trascurati, si offrì senza remore all'abbraccio del degrado. Presto divenne così mal ridotta che non fu più possibile abitarla, neanche d'estate, quando tutto sembra, o davvero è, più facile. Nei rari ritorni in zona mi fermavo a dormire a Fiume, da Luli e Cristina, e anno dopo anno vidi assottigliarsi la famiglia allargata di Mina, finché non rimase che lei: coriacea, segnata, una magrezza così spigolosa e autorevole da sembrare scolpita.
Una volta, ricordo, mi sorpresi a pensare che la fatica di resistere l'aveva resa somigliante a una vecchia leonessa, e chissà che quel baluginio di regale appartenenza felina non fosse un suo modo di accomiatarsi. La primavera seguente, infatti, di lei non c'era più traccia. Interrogato in proposito, Luli si limitò ad alzare le spalle. Stavamo sul poggiolo a parlare, il tramonto era limpido. Volsi lo sguardo intorno e ascoltai con gli occhi tutta quella pace; Mina ne faceva parte. Io, non avevo ancora imparato a morire.
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