lunedì 31 maggio 2010
MINA, di Fabio Ciriachi
MINA,
di Fabio Ciriachi
Non so come facesse Mina a capire che ero arrivato. La Sassa dista da Fiume un centinaio di metri in linea d'aria; un poggio di quercioli la nasconde alla vista, e soltanto i suoni molto forti, col vento favorevole, superano distanza e ostacoli. Eppure sempre - poco dopo aver scaricato dall'auto bagagli e spesa, e aver messo a scaldare l'acqua per il tè - silenziosamente Mina appariva: magra, austera, le striature soriane di una chiarezza sempre più dilavata, quasi sabbiosa. Non si presentava da sola ma assieme a un numero incalcolabile di gattini; se non suoi, di qualche sua figlia al seguito, ancora più minuscola della madre e però, come lei, molto compresa del ruolo materno.
Che nelle mie buste della spesa ci fossero anche scatole di Kit Kat e la maxi confezione di croccantini lo sapevo io, lo sapeva la cassiera della Coop che mi aveva battuto il conto, ma non Mina. Eppure, per qualche strano percorso mentale, ne veniva a conoscenza, e poco dopo il mio arrivo, radunati figli e nipoti, si metteva alla testa del corteo che concludeva la sua marcia con un grande raduno sul poggiolo dove di solito passavo molte ore per l'incomparabile vista che da lì si gode sul paesaggio intorno.
Da capostipite Mina governava con flemmatica dignità una famiglia allargata che comprendeva sempre, oltre a cuccioli e puerpere, una o due femmine gravide. Grazie a una solida vocazione amorosa, la comunità felina era la sola in crescita su quei poggi appartati dove gli umani, al contrario, si riducevano anno dopo anno, sia per gli esodi dei giovani verso la pianura, che per le dipartite dei vecchi verso chissà dove, anche se d'inverno tutta quell'abbondanza veniva pesantemente falcidiata dal gelo notturno e dall'astuzia dei predatori, fatale per l'inesperienza dei più piccoli.
Dal colore del pelo si capiva subito se la paternità dei neonati era attribuibile al diavolo nero di Bruno, che si avvicinava guardingo alla Sassa solo per rubare il cibo ai figli, o non piuttosto al gatto bianco e rosso di Dante, che puntava le femmine in calore con l'indolenza di un vitellone. L'alternarsi dei padri era una certezza che, oltre a riflettersi nei colori della prole, mi faceva guardare a Mina con quella curiosità lievemente ammirata che si riserva, di solito, a chi è capace di sorprenderci.
Durante le mie lunghe assenze dalla Sassa, Mina e famiglia ruotavano attorno al poggiolo in legno della casa di Luli e Cristina, a Fiume. Lì ricevevano gli avanzi dei pasti, una manciata ogni tanto di croccantini, e qualche rada carezza femminile, attenzioni insufficienti a lenire il divieto di entrare in casa, che bruciava loro soprattutto d'inverno, quando nel grande camino d'angolo ardevano ciocchi di scoppiettante quercia.
In quel periodo, appena avevo un po' di tempo libero, correvo a rifugiarmi alla Sassa nel cui isolamento cercavo le condizioni migliori per imparare a morire. Non ero né depresso né gravemente malato, ma si era formata in me, non ricordo in che modo, la netta convinzione che non dovessi aspettare di esserlo per imparare qualcosa che di sicuro, prima o poi, mi sarebbe tornata utile.
Quanto difficile fosse seguire quel proposito si era mostrato evidente fin da subito. Ma dopo un primo smarrimento - così profondo da farmi disperare di poter mai riuscire - poco alla volta mi era parso di cogliere, se non la risposta, almeno la direzione giusta verso la quale muovere; che non doveva essere il progressivo distacco dalla vita ma, al contrario, un intensificarsi e raffinarsi dell'amore verso ogni suo aspetto. E poiché sentivo una grande affinità con le splendide manifestazioni della vita che sono gli alberi, gli uccelli, il vento, il cielo, appena possibile partivo per la Sassa dove potevo vivere a stretto contatto con quelli che sempre più, da semplici interlocutori, stavano diventando dei silenziosi maestri.
Radunatasi l'intera famiglia sul poggiolo, Mina cominciava a strusciarsi alle mie caviglie finché non l'accarezzavo. Allora, ronfante, arcuava la schiena e mi si spingeva con più forza contro, pestando gli artigli sulla pietra del pavimento; gli occhi serrati, il muso proteso. Dopo qualche minuto di coccole aprivo due scatolette di Kit Kat. Al solo rumore della latta recisa cominciava il coro dei miagolii, l'andirivieni agitato sulla soglia che avevano imparato a non superare. Distribuivo il cibo in due piatti che poggiavo in terra, e per un po' c'era solo il mugugnante basso continuo della fame appagata.
Quando il sole era dietro la casa mi spostavo sulla terrazza in ombra, e dopo aver sfiorato con lo sguardo il verde dei boschi, le querce del Pianale, il vento che animava le foglie dei pioppi, le nuvole a forma di nuvole nel profondo del cielo, seguivo, sull'aia, i giochi a corsa pazza dei cuccioli, la pigra attitudine di Mina e figlie grandi ad assumere pose di ieratica compostezza.
Un giorno in cui ero troppo preso da astratte difficoltà per accorgermi di quanto avveniva intorno (e se non vedevo neanche i gatti, quanta speranza mi restava di ascoltare gli imperturbabili maestri della natura?) di colpo Mina mi si parò davanti. Lì per lì non notai in lei alcun cambiamento, e però mi guardava in modo diverso dal solito. Soprattutto, era palese, chiedeva; cosa che, nella nostra saltuaria frequentazione, non era mai capitata, giacché quanto le davo appagava sempre ogni suo desiderio. Ora, invece, faceva una spola inquieta tra la cucina e il poggiolo, come se mi dicesse di andarle dietro. Via via che la seguivo, si agitava sempre più, e con quel suo andirivieni frenetico finì per guidarmi verso la mia camera.
Arrotolai la stuoia che faceva da porta, e infine compresi. Nel centro del grande letto con la sovraccoperta bianca, sprofondati in una sorta di nido fatto di pelo, straccetti e altre morbidezze, pulsavano, come bolle di uno stesso respiro, sei o sette gattini appena nati. Rimasi incantato ad ammirarli, così delicatamente vivi che temevo quasi, non dosando lo sguardo, di far loro del male.
Mina doveva aver colto la mia approvazione e, rassicurata, stava lì seduta a guardarmi; le piccole mammelle gonfie di latte che spuntavano dal grigio dei peli, fiera di una scelta trasgressiva che in quel caso, però, la mia complicità le confermava opportuna. Si lasciò carezzare a testa china, poi saltò agilmente sul letto e si acciambellò attorno ai suoi piccoli offrendosi alla loro fame.
Grazie a lei, quel pomeriggio, molte delle mie inquietudini di colpo svanirono, e potei sedermi con animo aperto al mio osservatorio preferito a interrogare i maestri; che intanto, tutt'intorno, continuavano a raccontare i loro imperscrutabili misteri.
Seguirono anni in cui, troppo preso da ineludibili impegni, potei recarmi sempre meno alla Sassa. La casa cominciò a nascondersi tra i viluppi della vegetazione e, come fanno spesso i luoghi trascurati, si offrì senza remore all'abbraccio del degrado. Presto divenne così mal ridotta che non fu più possibile abitarla, neanche d'estate, quando tutto sembra, o davvero è, più facile. Nei rari ritorni in zona mi fermavo a dormire a Fiume, da Luli e Cristina, e anno dopo anno vidi assottigliarsi la famiglia allargata di Mina, finché non rimase che lei: coriacea, segnata, una magrezza così spigolosa e autorevole da sembrare scolpita.
Una volta, ricordo, mi sorpresi a pensare che la fatica di resistere l'aveva resa somigliante a una vecchia leonessa, e chissà che quel baluginio di regale appartenenza felina non fosse un suo modo di accomiatarsi. La primavera seguente, infatti, di lei non c'era più traccia. Interrogato in proposito, Luli si limitò ad alzare le spalle. Stavamo sul poggiolo a parlare, il tramonto era limpido. Volsi lo sguardo intorno e ascoltai con gli occhi tutta quella pace; Mina ne faceva parte. Io, non avevo ancora imparato a morire.
lunedì 24 maggio 2010
ALFA PRIVATIVO - MCMXCII - Agosto, di Gaja Cenciarelli
Questa volta non è un inedito, ma un racconto già uscito su Accattone anni fa e nel blog di Laura&Lory.
ALFA PRIVATIVO
MCMXCII – Agosto
di Gaja Cenciarelli
Bianco come la balena intelligente, che aggiunse una sfumatura inquietante alla purezza di quel colore. Emerso dalle nebbie della non-essenza in un terrazzo profumato di gerani, piante di limoni e rose rosse. Faceva caldo, quel giorno. Le signore, stendendo i panni in cortile, si raccontavano le ultime novità. Così la donna del secondo piano venne a sapere della sua nascita e lo adottò. Erano anni che sua figlia desiderava un gatto. Il cucciolo aveva una macchia grigia sulla testa, che sarebbe scomparsa con l’età (Ti chiamiamo Gorbaciov, allora? O Herman, come Melville? No, Herman aveva un suono troppo duro per una creatura così armoniosa, decise la ragazza). Nel giro di quattro mesi arrivò a dieci chili di bianco: splendido gaudium pleni. (Perché quando lo chiamo non si gira? Non vorrei fosse albino... in questo caso potrebbe essere anche sordo, la donna). Romano fin nelle viscere e strafottente, come solo i veri romani sanno essere: senza offendere, ma senza traccia di understatement. «Tenete, pascetevi della mia immensità: nulla può scalfirmi, di nulla ho paura».
(Non è sordo, ma non gliene frega niente lo stesso che lo chiami, se non vuole rispondere, il marito della donna che lo aveva accolto in casa).
(Ma non miagola mai..., ribadisce lei)
(E perché dovrebbe? Io gli leggo nel pensiero, non ha bisogno di chiedere, lui)
Tra l’uomo e il gatto s’instaura un rapporto privilegiato e di costante adorazione: il loro è un amore infinito, senza spazi vuoti, senza lacune. Gli altri membri della famiglia sono un po’ invidiosi. L’uomo gli lascia la luce accesa, di notte, perché sa che il figliolo – il suo maschietto -, al buio, non riesce a dormire.
MMIV – Febbraio
La ragazza si accascia in corridoio, stringendosi le ginocchia al petto. La sirena ancora ulula in lontananza e lei si ripete che non è una delle solite sirene cui ormai non fa più caso. Non è una delle solite ambulanze che porta sconosciuti al San Giacomo (quante volte ha immaginato i loro corpi, le loro menti, i loro pensieri. Quante volte ha pensato che qualcuno di loro stesse per morire. Quante volte si è chiesta: e dopo?) perché quella sirena urla per suo padre e perché il malato che porta al San Giacomo èsuo padre. Il gatto è di fronte a lei. Sembra imbambolato, un pupazzo di neve con un puntino rosso carota al posto del naso. La fissa con occhi sbarrati che quel giorno sembrano più grandi del solito. La ragazza si rialza. Il gatto la segue per una decina di minuti, mentre lei vagola senza mèta da una stanza all’altra della casa, risponde al telefono, parla senza sentire la propria voce. È la prima volta nella sua vita che le parole che pronuncia non le appartengono. La ragazza è un no. Un senza.
Che succederà dopo. Se papà non.
Il gatto salta sul letto, al posto di suo padre, si acciambella – per quanto glielo consenta la mole – e si addormenta. Cioè, chiude gli occhi.
MMIV - Aprile
Quel ventotto aprile duemilaquattro - il primo giorno in cui, dopo sedute e sedute di riabilitazione suo padre è uscito a fare una passeggiata, sia pure di soli dieci minuti – il padrone del forno sbraita, la ristrutturazione di Sant’Agostino è finita, Codognotto ha scolpito le indicazioni per arrivare a piazza Navona (stanco di dare spiegazioni ai turisti) e le ha appese sulle mura vecchie e fresche di Sant’Apollinare.
Ma la ragazza non è a casa.
Accarezza il gatto sul tavolo del veterinario. Lui la guarda, ansima, ha un po’ di bava tra le fauci.
«Stai buono, amore mio, io sono qui».
Poi esce. Aspetta.
Vede passare due uomini con il camice verde che trasportano un lungo e pesantissimo sacco dell’immondizia. Abbassa le palpebre per farsi scudo. Per non capire.
Sa che l’immenso candore del corpo felino che agonizza a pochi centimetri da sé ha cominciato a opacizzarsi dal momento in cui suo padre era stato ricoverato.
Il veterinario la chiama: «Non ce l’ha fatta. Se vuole vederlo... Ma non glielo consiglio».
La ragazza non può vederlo perché non ha più occhi. È un’assenza.
«Sa dove seppellirlo? Altrimenti ci pensiamo noi».
Quel lungo e pesantissimo sacco dell’immondizia.
«No, non so dove seppellirlo. Pensateci voi».
Da via Gregorio VII a casa sua il trasportino vuoto è un maglio che le trafigge il palmo della mano, il dolore aguzzo le si irradia nello stomaco e nel cervello. Sanguina la testa, che si sforza di formulare per il suo vecchio padre una frase meno feroce della verità.
Non c’è più. Se n’è andato. Ci ha lasciato.
«Papà, è morto» gli dice, quando torna a casa.
Morto. Che vuol dire finito. Che vuol dire il dopo, che vuol dire il nulla.
La ragazza accarezza con gli occhi il posto preferito da Moby Dick, l’angoletto sull’armadio da cui dominava la stanza, e per l’ultima volta gli canta la nenia di tutti i soprannomi inventati per lui in dodici anni di vita. Dal ventinove aprile in poi, non guarderà più lì perché, pensa - in un folle ed esasperante flusso di coscienza - : se non guardo, non vedrò che non c’è, quindi potrebbe anche esserci mentre non guardo.
lunedì 17 maggio 2010
Alla latteria del gatto nero, di I. Borghese
Alla Latteria del gatto nero*
Isabella Borghese
a Raul Montanari, con l’amore che sa il suo cavaliere
*ricordando un locale di Calcata
La prima volta che ho visto Eva era mascherata da indiana. Le frange della gonna oscillavano a terminare appena sotto le chiappe… Che culo!, ha elaborato la mia testa. La seconda invece eravamo all’Old bear, non lontani dal Palazzaccio. Una cena di compleanno. Piero compiva trentasette anni. Eva era seduta proprio di fronte a me. Indossava un vestitino, fuori moda, direi, ma delizioso, né corto né lungo… e mi guardava in quel modo… arrapante!, sì, arrapante! Questa stasera me la sbatto!, mi son detto a quella cena.
Ma Eva mi ha dato buca e l’ha fatto prima ancora di permettermi di provarci.
La terza volta l’ho incontrata per caso. Era così deliziosa con quel basco verde, il carrello della spesa, un abito che sembrava così poco adatto per il mercato e quei rimasugli di trucco della notte andata. Ti va una serata insieme?, le ho proposto. Un concerto o una cena?… Una cena!, sì, mi rispondeva lei mentre abbassava lo sguardo e sistemava le ruote del carrello che appesantito dalla spesa sembrava non potersi mantenere dritto.
A quella nostra prima cena, forse perché è stata la prima volta che io e Eva siamo stati a contatto da soli, voce a voce, sguardo a sguardo, corpo a corpo, Eva è riuscita a convincermi che oltre ad essere arrapante e regalare alla mia vista un gran bel culo possedeva ben altro.
Dei gatti, per esempio.
E un fare bizzarro che mi incuriosiva, anche questo.
Eva infatti era riuscita a intrattenermi per l’intera cena raccontandomi di Kit il certosino che portava il nome del gatto di Colette, di Ciprincolta, nome consigliato da Elliot. E poi c’era Paul. Che razza di nome per un gatto!, pensavo. Ma non ho mai saputo a chi Eva
avesse rubato il suo nome.
Io del resto sono un uomo. Gli uomini i gatti li chiamano come i supereroi o i personaggi dei fumetti, al limite. Infatti il mio amico Lajos aveva Zanardi, Colasanti e Petrilli, i gatti di Andrea Pazienza, peraltro.
A Eva ho tentato di chiederglielo, più di una volta, ma Sai, ci sono cose della mia vita, mi diceva, che son solo mie.
Paul mi, spiegava lei, candida, sincera e serena, è roba mia e basta.
E io me ne stavo zitto a sentire le sue verità. Paul è un nome che ha il sapore di un uomo, ne ero convinto e così lasciavo cadere la conversazione.
E lei mi sorrideva. E io le sorridevo.
E poi mi guardava in silenzio. E io rispondevo con il mio di silenzio.
E poi mi baciava. E io mi attizzavo.
Ma lei riprendeva in mano la situazione.
Cosa fai nella vita?, sembrava curiosa. Le raccontavo di essere uno scrittore. Sì, Eva, certo, ho pubblicato pochi romanzi, con piccoli editori. Riprendevo fiato, Solo due per l’esattezza: Vita da leoni, Storie di un uomo che va a diesel e Di notte a Muccassassina. Di giorno in Chiesa. Stavo lavorando sulla doppia vita di un prete, all’epoca.
Lei cambiava d’improvviso espressione, Non chiedermi mai di leggere i tuoi libri, puntualizzava. Io non leggo più niente. Non leggi più niente? NI-E-NTE! Zero! Neanche le notizie del giornale online. Per queste ascolto la radio e basta.
Non mi aveva detto nulla di più in merito. Mi sembrava evidente che anche questa storia doveva essere ‘una roba sua e basta’.
Eva invece era la grafica di una tipografia, ma lavorava per lo più da casa.
Da quel bacio al ristorante ne è nata una bella scopata se non fosse stata interrotta da un
Senti Leo, io con gli scrittori non voglio avere proprio nulla a che fare. È l’ultima notte che ci vediamo.
Ma mi aveva chiamato Leo, con un tono sussurrato, gentile, anche intimo direi. Un tono e una confidenza che non sembrava di certo essere in linea con la distanza che le sue parole volevano mettere tra noi.
Eva era quella del, Sai… senti… cosa fai… non mi chiamava mai per nome, per questo quel Leo non poteva passare inosservato.
E infatti di lì a poco Eva, Kit, Ciprincolta e Paul si trasferivano a casa mia.
Io continuavo a scrivere spingendomi di notte in quei locali dove è più semplice imbattersi in conoscenze promiscue. Mi era necessario per la narrazione. Eva non mi seguiva mai. Io la volevo portare con me per dimostrarle che mi recavo lì senza vizietti né malizia… ma lei aveva sempre le sue cose da sbrigare e da fare. Mi diceva ogni volta, Dài, una sera ti porto a cena alla Latteria del gatto nero, a Calcata. Vai pure da solo o con i tuoi amici in quei posti. Io resto con Paul, Kit e Ciprincolta, ho il mio lavoro da sbrigare. E il dopocena con le amiche.
Di notte in quel periodo scivolavo dunque dentro cabine rosse che mostravano luci soffuse, rotoli di carta igienica appesi e odore di sesso stantìo. Caracollavo dalla sala bar, a quella buia illuminata solo dalle sigarette facendo finta di cercare, o forse di aspettare semplicemente la persona che più si adattasse al mio desiderio attuale. Poi mi fermavo davanti al maxi schermo. E lì restavo sul pornazzo di turno quasi a voler mostrare un puro interesse.
Poi me ne andavo e immaginavo che agli occhi degli altri non potessi essere altro che un voyeur. Mi andava bene così tutto sommato.
Una tipa me la sarei pure sbattuta inciampando nel fascino del non saperle attribuire un’identità precisa. Mi sembrava tra l’altro un ottimo incipit per rivedere la mia storia.
Ma in quel periodo rimaneva un desiderio col nome di “sfizio”.
Rientravo a casa sempre dopo le quattro e Eva sembrava fregarsene. La trovavo sempre con la radio accesa, con Paul acciambellato accanto a lei, la tisana di finocchio, un cannetta finita o da rollare. Ben tornato!, mi diceva, con un ghigno. A volte la notte proseguiva con una scopata accompagnata da qualche pensiero “all’identità sconosciuta”. E questo pensiero aveva il pregio unico di intensificare il desiderio che avevo di sbattermi Eva, ogni notte.
Poi Paul si addormentava con noi. Tra le nostre ginocchia, sempre.
Paul, più di Kit e Ciprincolta, era davvero curioso. Lui si muoveva seguendo ovunque il passo di Eva. Mi faceva divertire molto questa faccenda. Io infatti maturavo un affetto più forte per Kit e Ciprincolta. Loro mangiavano e dormivano, niente di più. Kit si divertiva a buttare giù dalla mensola del bagno lo shampoo e il bagnoschiuma. Ma avevo memorizzato questo come un fare che mi divertiva. Mi dilettavo, infatti, a sentire i suoi movimenti, visto che quelli di Paul erano tutti per Eva.
Una mattina, mentre andavo al lavoro, la vicina di casa mi fermava così entusiasta, Ehi! Ma quando ci presentate il vostro piccolo Paul. Il fatto che la vicina pensasse che Paul fosse nostro figlio mi aveva fatto declinare la conversazione con una semplice risata e una fuga repentina. Il resto della giornata lavorativa l’avevo trascorsa depresso a rimuginare su quanto silenzio in casa ci fosse tra me e Eva e quante chiacchiere invece lei avesse da regalare al suo Paul.
Avevo d’improvviso preso coscienza del nostro rapporto così poco condiviso. Provai a parlarne quella sera, a cena, con lei.
Avevamo concluso che tra noi c’erano più silenzi che altro, più scopate che amore, più diversità che corrispondenze.
Io però l’amavo e le proponevo dunque di dedicare più tempo a noi.
Lei finalmente mi invitava a cena alla Latteria del Gatto nero per il venerdì a seguire.
Mi sembrava un ottimo modo per ricominciare.
Quel venerdì alla Latteria del gatto nero, tra polenta con le spuntature, cicoria ripassata in padella e un litro rosso della casa Eva concludeva, Dobbiamo lasciarci, sai? Ho riflettuto a lungo sulla nostra conversazione dell’altra sera. Ti voglio bene, sì, ma… non possiamo costruire cose che non ci appartengono insieme. Sai, ho pensato a quanto tu ami Kit e Ciprincolta. Anche a Paul. Direi che Paul è roba mia, sì, deve venir via con me ma, Kit e Ciprincolta, loro, se vuoi, te li regalo, sì.
Sembrava che Eva stesse spartendo i figli in base alla sua personale visione del mondo.
Io restavo basito. Dovevi portarmi alla latteria del gatto nero per lasciarmi?
Ti avevo promesso che ti ci avrei portato… quando l’avrei fatto se non oggi? Di lì a pochi giorni Eva andava via.
Col suo Paul. Per sempre.
lunedì 10 maggio 2010
SENZA TITOLO, di Massimo Bisotti
SENZA TITOLO
di Massimo Bisotticontatto facebook: Massimo Bisotti
Vengo a trovarti e chiedo la mia parte di sogni.
Ti chiedo di amarmi anche in condizioni critiche, di prenderti un po' cura di me senza lisciarmi il pelo.
Ho sempre deciso da me a chi fare le fusa e a chi no, su chi muovermi. Poche anime ci regalano con le zampe il passo della felicità.
Tu mi versi i tuoi occhi liquidi nella mente e il tuo sguardo è uno sparo che mi uccide e mi ridesta nuovo.
E così la mia parte te la rendo, preferisco stia con te, tiro fuori le unghie ed è già sveglio il mio cuore. L'ho visto svenire stanotte, ma ora è duramente saldo nel petto. E tu vuoi la mia anima di gatto bianco randagio che da fuori non sembra un'anima di strada, ma non si affeziona ai suoi appartamenti, anche se il suo pelo è lucido. Vorresti catturare la mia magia, mentre suono il pianoforte con il solo movimento della coda e sentire i miei graffi sulla tua pelle. Chi ci ama ci tiene la coda per mano e nei passi l'anima, senza stringere.
Io ti desidero in modo indecente e non ero intenzionato a cambiare ma per te sto cambiando, perché " i vorrei ma non posso" non so cosa significhino e ti sto già dentro le maree.
Sono un gatto che non ha paura dell'acqua, si spinge al largo, l'ha sempre fatto.
E tu se pensi che vorresti, fallo, che la vita bussa piano, istrionica e plateale a volte, con il suo passo sinuoso, ornata da cuscinetti paracolpi per poi chiudere gli occhi davanti al sublime. Il sublime impedisce solo per pochi attimi di vedere, il sublime trapassa, rimane. Il sublime è ultravioletto, è quel senso in più che ci lascia vedere chissà cosa in ciò che il resto del mondo chiama polvere. E tu sei il colore che io non ho e io sono il colore che tu non hai.
E nessuno vorrebbe il colore dell'altro ma a nessuno basta avere più soltanto il proprio.
Siamo ognuno dentro a un solo occhio ma dello stesso muso.
Mutare è un'attitudine ma mai un gran finale.
Arriva il giorno che se hai coraggio ti ritrovi a cambiar pelo e te la smetti di portarti addosso gli strati morti di una vita. Te li scrolli con una doccia di nuovo sole e inizia il secondo tempo del film della tua vita.
È questo che intendi per passione anima[le]?
Ho finto immortalità poco spontanea, perché non so fingere né recitare. La mia aggressività è solo puro istinto alla difesa.
Ma redimersi è cosa davvero poco eccitante.
Per questo amo il mio gusto immorale di latte nero.
E lo consumo fino all'ultima goccia.
Vuoi assaggiare che sapore abbia la sincerità?
Allora prendimi ma non mettermi in una gabbia emozionale.
Le mie emozioni sono il mio ascensore, vanno su e giù con l'amore.
È pericoloso sporgersi dal ventesimo piano di un sentimento ma non serve indicare il presente se l'eternità passa e noi non eravamo lì ad attenderla.
E allora salto in tutti i cieli degli universi paralleli, perché tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire.
Io, mentre mi guardo cadere dall'alto, tentando di sopravvivere alla caduta, decido d'improvviso.
Rinuncio alle sette vite per una Vita di cui morire davvero.
SENZA TITOLO, di Massimo Bisotti
SENZA TITOLO
di Massimo Bisotticontatto facebook: Massimo Bisotti
Vengo a trovarti e chiedo la mia parte di sogni.
Ti chiedo di amarmi anche in condizioni critiche, di prenderti un po' cura di me senza lisciarmi il pelo.
Ho sempre deciso da me a chi fare le fusa e a chi no, su chi muovermi. Poche anime ci regalano con le zampe il passo della felicità.
Tu mi versi i tuoi occhi liquidi nella mente e il tuo sguardo è uno sparo che mi uccide e mi ridesta nuovo.
E così la mia parte te la rendo, preferisco stia con te, tiro fuori le unghie ed è già sveglio il mio cuore. L'ho visto svenire stanotte, ma ora è duramente saldo nel petto. E tu vuoi la mia anima di gatto bianco randagio che da fuori non sembra un'anima di strada, ma non si affeziona ai suoi appartamenti, anche se il suo pelo è lucido. Vorresti catturare la mia magia, mentre suono il pianoforte con il solo movimento della coda e sentire i miei graffi sulla tua pelle. Chi ci ama ci tiene la coda per mano e nei passi l'anima, senza stringere.
Io ti desidero in modo indecente e non ero intenzionato a cambiare ma per te sto cambiando, perché " i vorrei ma non posso" non so cosa significhino e ti sto già dentro le maree.
Sono un gatto che non ha paura dell'acqua, si spinge al largo, l'ha sempre fatto.
E tu se pensi che vorresti, fallo, che la vita bussa piano, istrionica e plateale a volte, con il suo passo sinuoso, ornata da cuscinetti paracolpi per poi chiudere gli occhi davanti al sublime. Il sublime impedisce solo per pochi attimi di vedere, il sublime trapassa, rimane. Il sublime è ultravioletto, è quel senso in più che ci lascia vedere chissà cosa in ciò che il resto del mondo chiama polvere. E tu sei il colore che io non ho e io sono il colore che tu non hai.
E nessuno vorrebbe il colore dell'altro ma a nessuno basta avere più soltanto il proprio.
Siamo ognuno dentro a un solo occhio ma dello stesso muso.
Mutare è un'attitudine ma mai un gran finale.
Arriva il giorno che se hai coraggio ti ritrovi a cambiar pelo e te la smetti di portarti addosso gli strati morti di una vita. Te li scrolli con una doccia di nuovo sole e inizia il secondo tempo del film della tua vita.
È questo che intendi per passione anima[le]?
Ho finto immortalità poco spontanea, perché non so fingere né recitare. La mia aggressività è solo puro istinto alla difesa.
Ma redimersi è cosa davvero poco eccitante.
Per questo amo il mio gusto immorale di latte nero.
E lo consumo fino all'ultima goccia.
Vuoi assaggiare che sapore abbia la sincerità?
Allora prendimi ma non mettermi in una gabbia emozionale.
Le mie emozioni sono il mio ascensore, vanno su e giù con l'amore.
È pericoloso sporgersi dal ventesimo piano di un sentimento ma non serve indicare il presente se l'eternità passa e noi non eravamo lì ad attenderla.
E allora salto in tutti i cieli degli universi paralleli, perché tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire.
Io, mentre mi guardo cadere dall'alto, tentando di sopravvivere alla caduta, decido d'improvviso.
Rinuncio alle sette vite per una Vita di cui morire davvero.
SENZA TITOLO, di Massimo Bisotti
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Vengo a trovarti e chiedo la mia parte di sogni.
Ti chiedo di amarmi anche in condizioni critiche, di prenderti un po' cura di me senza lisciarmi il pelo.
Ho sempre deciso da me a chi fare le fusa e a chi no, su chi muovermi. Poche anime ci regalano con le zampe il passo della felicità.
Tu mi versi i tuoi occhi liquidi nella mente e il tuo sguardo è uno sparo che mi uccide e mi ridesta nuovo.
E così la mia parte te la rendo, preferisco stia con te, tiro fuori le unghie ed è già sveglio il mio cuore. L'ho visto svenire stanotte, ma ora è duramente saldo nel petto. E tu vuoi la mia anima di gatto bianco randagio che da fuori non sembra un'anima di strada, ma non si affeziona ai suoi appartamenti, anche se il suo pelo è lucido. Vorresti catturare la mia magia, mentre suono il pianoforte con il solo movimento della coda e sentire i miei graffi sulla tua pelle. Chi ci ama ci tiene la coda per mano e nei passi l'anima, senza stringere.
Io ti desidero in modo indecente e non ero intenzionato a cambiare ma per te sto cambiando, perché " i vorrei ma non posso" non so cosa significhino e ti sto già dentro le maree.
Sono un gatto che non ha paura dell'acqua, si spinge al largo, l'ha sempre fatto.
E tu se pensi che vorresti, fallo, che la vita bussa piano, istrionica e plateale a volte, con il suo passo sinuoso, ornata da cuscinetti paracolpi per poi chiudere gli occhi davanti al sublime. Il sublime impedisce solo per pochi attimi di vedere, il sublime trapassa, rimane. Il sublime è ultravioletto, è quel senso in più che ci lascia vedere chissà cosa in ciò che il resto del mondo chiama polvere. E tu sei il colore che io non ho e io sono il colore che tu non hai.
E nessuno vorrebbe il colore dell'altro ma a nessuno basta avere più soltanto il proprio.
Siamo ognuno dentro a un solo occhio ma dello stesso muso.
Mutare è un'attitudine ma mai un gran finale.
Arriva il giorno che se hai coraggio ti ritrovi a cambiar pelo e te la smetti di portarti addosso gli strati morti di una vita. Te li scrolli con una doccia di nuovo sole e inizia il secondo tempo del film della tua vita.
È questo che intendi per passione anima[le]?
Ho finto immortalità poco spontanea, perché non so fingere né recitare. La mia aggressività è solo puro istinto alla difesa.
Ma redimersi è cosa davvero poco eccitante.
Per questo amo il mio gusto immorale di latte nero.
E lo consumo fino all'ultima goccia.
Vuoi assaggiare che sapore abbia la sincerità?
Allora prendimi ma non mettermi in una gabbia emozionale.
Le mie emozioni sono il mio ascensore, vanno su e giù con l'amore.
È pericoloso sporgersi dal ventesimo piano di un sentimento ma non serve indicare il presente se l'eternità passa e noi non eravamo lì ad attenderla.
E allora salto in tutti i cieli degli universi paralleli, perché tutti vogliono andare in paradiso ma nessuno vuole morire.
Io, mentre mi guardo cadere dall'alto, tentando di sopravvivere alla caduta, decido d'improvviso.
Rinuncio alle sette vite per una Vita di cui morire davvero.
domenica 2 maggio 2010
per Ron ron, ron ron!, evviva il gatto!, evviva il gatto: BASTET, di Silvia Ancordi
Contrariamente a quel che si possa pensare ho buona memoria. Da qualche giorno sul davanzale della stanza c’è un’enorme palla arancione vuota all’interno, con intagliati occhi e bocca. Hanno un che di mostruoso e lasciano intravedere la luce di una candela: devo stare pronta perché questo è il primo segno. Ieri sera l’umana ha sistemato la statua e disposte candele bianche per la stanza, le ha sparse per terra vicino a dove riposa, sulla scrivania e anche sopra la mia testa: m’inquieta un po’, forse è per questo che ricordo in modo così vivido. Le candele sono il secondo elemento quindi non devo far altro che aspettare il sorgere del sole.
Quando il primo raggio attraversa la finestra colpendomi ha inizio il giorno della stranezza. Le candele sono già accese. Eccola, arriva. Infila una zampa dentro la porta accostata, la ritrae e la infila di nuovo spingendo con il muso per entrare nella stanza dolcemente, lasciando che la porta si riaccosti dopo il suo passaggio. Si mette vicino al tavolo, respira il fumo di un bastoncino sottile che brucia lentamente, starnutisce e subito sfrega la zampa sul muso in modo insistente, come se il fumo fosse rimasto nelle narici scure. Ora inizia a girare per la stanza facendo attenzione a non bruciarsi la lunga coda nera con la fiamma delle candele. Ha orecchie appuntite ma non molto lunghe, ne ho viste di più evidenti. Il manto nero mi ricorda Nefer, una delle gatte più regali che sia mai passata da qui: hanno le stesse movenze eleganti e sinuose. Il bastoncino ha smesso di profumare l’aria e dalla strada arriva il vociare del mercato e del caos cittadino: ricordo ancora l’unica volta che l’ho attraversato prima di arrivare in questa casa. Con passo felpato si avvicina a una ciotola bianca, lucida, beve dell’acqua immergendo ripetutamente la lingua curva a cucchiaio, poi si sposta appena e sento che sgranocchia cibo secco e croccante ma non riesco a vederla. Si mette al centro della stanza, si ferma un attimo, osserva il cielo oltre la finestra, poi si guarda attorno, alza una zampa e la passa sul muso. Socchiude gli occhi, si sposta un altro po’, li richiude e riprende a pulirsi il muso con l’altra zampa. Cammina lenta per andare nel posto dove l’umana è solita riposare quando il sole è calato e si acciambella sul cuscino più grande. Dopo un istante si alza, inarca la schiena e ogni muscolo freme per pochi istanti come scosso in un brivido, gira su se stessa, si sdraia, si rialza, fa un secondo giro nel senso opposto e si rimette esattamente nella posizione iniziale. Appoggia la zampa anteriore sinistra sulla coda allungata vicino al corpo a chiudere il cerchio e infila la destra sotto il muso. Si addormenta. Quando dorme e non fa nulla è il momento più noioso della giornata della stranezza.
Io aspetto e osservo: la luce del sole nella stanza si sta spostando e presto scomparirà dietro il muro oltre il bordo della finestra.
Quando dormendo si gira come ora a pancia all’aria e muove le zampe come se inseguisse qualcosa fa morire dalle risate. Starà sognando. O forse soffre di qualche rara malattia. Di scatto si mette dritta e si guarda attorno con le pupille dilatate e il respiro affannato come se avesse paura. Scende dal cuscino e si rimette al centro della stanza mentre le candele si sono consumate creando pittoresche colonne di cera che si allargano in piccoli laghi solidi appena toccano il pavimento freddo. Con un secondo scatto si abbassa di nuovo, allunga il muso in avanti, raddrizza le orecchie, muove alternando le zampe posteriori stando ferma sul posto e corre vicino al giaciglio dell’umana sotto il quale infila la destra muovendola rapidamente per prendere qualcosa. Ora si sposta e si appiattisce ancora a terra poi corre veloce verso l’angolo opposto giocando con una pallina verde e gialla. Va avanti e indietro per diverso tempo seguendone i rimbalzi, evitando abilmente ogni ostacolo, gira su se stessa come avesse un avversario con cui scontrarsi e difende la palla strenuamente, finché questa non scompare rotolando sotto la cassettiera di legno a fianco della scrivania. Insiste cercando di afferrarla con la zampa. Controlla la posizione esatta, prova a spostarsi per cercare un punto più favorevole e ritenta. Si allontana poi indifferente e torna alla ciotola bianca per bere un po’ d’acqua. Si mette in finestra a guardare fuori e lascia la coda a piombo all’interno del marmo bianco del davanzale. Ogni tanto muove di scatto la testa seguendo il volo di qualche uccello.
Se vede piccoli insetti, invece sbatte i denti ed emette un flebile “Ma-a-ao!”
Il sole cala e nella stanza sta facendo buio: le candele più piccole si sono spente e quelle più grandi sono prossime a farlo. Scende dal davanzale e torna a controllare se la pallina sia ancora lì, ma non cerca di prenderla. Si porta verso una grande statua a forma di gatta e si struscia, dal muso alla coda, avanti e indietro, quasi la stesse corteggiando, coccolando. Si acciambella ai piedi della statua e dorme ancora. Ora anche la candela sopra la mia testa si è spenta e la camera è buia.
Finalmente smette di essere gatta e torna a essere donna: toglie il cappuccio nero, slaccia la maschera felina, scioglie i lunghi capelli biondi, apre lentamente la cerniera che va dalla gola alla pancia passando in mezzo ai seni e sfila la tuta aderentissima nera che ogni trentun ottobre la rende Bastet, la dea con il corpo di donna e la testa da gatta, simbolo di fertilità e prosperità. Raccoglie la cera delle candele da terra e dal tavolo e poi finalmente si avvicina a me dopo aver chiuso la tenda della stanza e acceso la luce. Toglie la cera sopra il coperchio dell’acquario, lo apre e finalmente si ricorda di me: va bene che sono una tartaruga ma anche io ho fame.
sabato 1 maggio 2010
Ron ron, ron ron, evviva il gatto! evviva il gatto! progetto a cura di I. Borghese
Da Le chat de la voisine, di Yves Montand nasce l’idea del progetto Ron ron, ron ron. Evviva il gatto!, evviva il gatto!Voleva realizzarsi come un’antologia invece quest’idea ha trovato accoglienza nel mio blog (http://lecollanediisab.blogspot.com/) e ospiterà i racconti di diversi scrittori: Silvia Ancordi, Isabella Borghese, Gaja Cenciarelli, Fabio Ciriachi, Gianluca Colloca, Laura Costantini e Loredana Falcone, Francesco Forlani, Valentina Fortichiari, Enrico Gregori, Monica Mazzitelli, Raul Montanari, Gianluca Morozzi, Beppe Sebaste.
È una faccenda difficile mettere il nome ai gatti, scriveva T. S. Elliot in una poesia dedicata ai nomi da assegnare ai nostri amati felini. Mi piaceva pensare che dai versi di Elliot avrei potuto tirare fuori un titolo divertente per questo piccolo progetto… poi ho (ri)ascoltato Le chat de la voisine e il titolo è nato con la velocità di un fulmine.
Yves Montand cantava di una donna indaffarata tutto il giorno col suo gatto e questo mi ricordava il fare di tutte le donne-mamme, permettetemi questo gioco!, che conosco e in cui mi riconosco anche e che amano trascorrere molto tempo osservando e giocando col proprio micio.
A me capita ogni giorno.
Mi ha fatto sorridere la cosa, molto, e mi ha permesso di trovare un titolo, anche canticchiandolo con quel fare spiritoso e affascinante di quest’artista francese.
Ma la canzone di Montand riesce anche a dire molto della guerra… e sarà proprio il bisogno di distrarsi dalla guerra che porta questa simpatica signora cantata da Montand, a impegnarsi tutto il dì con il suo gatto e il suo ron ron, ron ron?…
Così, semplicemente, nasce Ron ron, ron ron. Evviva il gatto! Evviva il gatto! e grazie ai contributi degli scrittori che mi hanno regalato i loro testi.
vostra,
Rose
Da lunedì saranno postati i racconti.
Nella foto il micio Raul Orghese
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